Pepita Misuraca  (1901-1992) 
                                     Una femminista avant la lettre   

Di recente, con gli auspici e il contributo del Comune di Cefalù, ha visto la luce – per i tipi della casa editrice il Palindromo di Palermo – la ristampa di due opere di Pepita Misuraca, la “Pasionaria” di Cefalù, come l’ha stigmatizzata Giorgio Belli dell’Isca, filologo e colto curatore dell’immagine di Pepita di cui è anche degno e fiero pronipote.
Un libro, un libello, che ti colpisce già per la sua veste grafica che si avvale di un disegno di Bruno Caruso in copertina e che ripropone, tra l’altro, la prefazione di un illustre cefaludese, Steno Vazzana.
A introdurre la tavola rotonda, il Sindaco, Daniele Tumminello, di cui mi piace ricordare la matrice di studioso del mondo classico; l’assessore alla cultura Antonio Franco che, con la sua fine e composita formazione letteraria, ha saputo sintetizzare la figura della Nostra; lo stesso Giorgio Belli dell’Isca che, per altro, ci ha proposto una carrellata di foto che ci ha trascinati in un mitico viaggio neorealista nella Genova e nella Sicilia Primi Novecento con tutta una polifonia di linguaggi e di dotte riflessioni; Maria Carla Martino Pagano che si è fatta portavoce di un’interessante testimonianza, come pure Fabio Biondi e Sandro Varzi.
Ho riletto in questi giorni due libri di Pepita, I personaggi e Quando l’anima sa leggere e la“Pasionaria”, la femminista !avant la lettre”, mi ha subito catapultata negli anni Sessanta del mitico Novecento, che l’hanno vista particolarmente attiva, e mi ha trasmesso questo Amarcord cefaludese che qui di seguito vorrei proporre.



Un amarcord cefaludese

Erano gli anni Sessanta e la minigonna aveva conquistato tutte le ragazze.
Erano gli anni del Club Mediterranée e delle francesine che sfoggiavano i primi bikini.
Erano gli anni in cui la Sicilia, da sempre vista come un mito, diventava qualcosa di più, quasi meta di un rinnovato Gran Tour, luogo d’ispirazione di artisti venuti da lontano come la lituana Antonietta Raphaël e lo slovacco Ernest Zmetak che, nella fattispecie, trascorrono lunghi periodi a Cefalù “fermando” sulle loro tele luoghi e tramonti. Artisti che proiettano sé stessi in una Sicilia che di per sé stessa è un mito.
Sono gli anni Sessanta, lontani ma vicini. Siamo già nel vortice dell’ansia del dopo che non è solo ricerca di benessere ma anche affannoso bisogno di dare soluzione ai tanti problemi sociali esistenti e serpeggianti, compreso quello dell’affrancamento della donna.
E’ il 4 luglio 1964 quando una Donna, Pepita Misuraca, una ligure approdata a Cefalù negli anni Venti, apre qua, in via Nicola Botta, la boutique “La Lanterna”, un bazar di cultura e di gusto dove, accanto al mobile antico, potevi trovare stampe d’epoca, stoffe orientali e scarpette particolari, opera di un artista emergente della calzatura, Ciccio Liberto, più noto come “Ciccio”. La Boutique, una stalla medievale restaurata e rieletta a nobiltà, si inserisce, per altro, in un periodo di grande fervore creativo che vede Cefalù lanciatissima sul piano nazionale con manifestazioni di grande richiamo come la “Moda Mare” e la “Gara automobilistica in salita Cefalù-Gibilmanna”; con il “Club La Caverna” e i suoi scatenati “Cavernicoli” e con gli studi appassionati di folklore e di Storia Patria di un Nico Marino.
A questi eventi, ma soprattutto alla “Moda Mare”, Pepita dà un grande contributo organizzativo e di idee.
La boutique, un unicum di gusto e raffinatezza, era anche un piccolo-delizioso ritrovo di persone di cultura, dove potevi sederti e assaporare un buon caffè che lei, con fare amabile, ti offriva, dove eri coinvolto in tutta una ibridazione di linguaggi.
In quella boutique andava spesso mia Madre, anche lei una non-siciliana, una veronese che della Sicilia amava i colori, gli odori, e, soprattutto, la struggente musicalità del lento e “molle” cigolio dei carretti.
Parlavano queste due Donne e avevano sempre due poli su cui scorrevano i loro ricordi: la Liguria per Pepita; il Veneto per Corinne (mia Madre).


Io ero lì, preadolescente entusiasta di tutto.
Pepita, chi era costei? Ruminavo tra me e me … alla don Abbondio.
Ogni tanto abbozzavo qualche domanda.
Era nativa di Genova, e portava un nome altisonante, Barbarossa.
Ma “Pepita” perché?
Era stata “madrina di guerra”, nel corso della Prima Guerra Mondiale, di un ufficiale cefaludese, di nome Salvatore, della nobile schiatta dei Misuraca.
Il compito della “madrina di guerra” era quello di incoraggiare il combattente con delle lettere di sostegno psicologico e con qualche regalo.
Alla fine della guerra, la giovanissima madrina (classe 1901) e il prestante figlioccio in divisa da artigliere si incontrarono…e fu subito Amore, quell’amore che i due, forse, avevano già in parte vagheggiato nei meandri della parola scritta, magari filtrata attraverso le parolibere dei Futuristi.
Erano gli albori degli anni Venti quando Pepita, diciottenne, dalla Liguria cala a Cefalù correndo sulle ali del nuovo secolo, il Novecento, e portandosi dietro tutto l’entusiasmo di quella ventata futurista che attraversava l’Europa e che, nella fattispecie, furoreggiava in Liguria con un Filippo Tommaso Marinetti che, per altro, aveva celebrato Genova come “la città futurista per eccellenza”. Nella sua valigia di migrante, la giovane porta anche i ricordi dei suoi luoghi, della dimora gentilizia dove viveva, del “viale di robinie che sa di tutti i nostri baci”, come scrive nel suo ultimo libro, “Quando l’anima sa leggere”.
Ma perché “Pepita”? Aveva a che fare con la Spagna?
Seguono esperienze varie in un clima storico-politico complesso e tumultuoso.
Dopo l’avventura coloniale, in cui segue il marito ad Addis Abeba dove svolge importanti funzioni diplomatiche, rientra nel 1943 in Italia abitando tra Palermo e Cefalù e frequentando la Libreria Flaccovio, punto di ritrovo di intellettuali del calibro di Sciascia, Guttuso, Accursio di Leo, e mi fermo qua, per non scomodarne troppi.


A Cefalù diventa ben presto polo di attrazione culturale e intorno a lei convergono varie iniziative destinate a cambiare il volto della cittadina normanna. Si deve a lei, e alla felice e dotta sintesi di linguaggi e di intese con il barone Giovanni Agnello di Ramata e con il Professor Giovanni Palamara, la fondazione dell’Associazione “Amici della Musica” che, ancor oggi, è il fiore all’occhiello dell’intellighezia locale. Intorno a lei, alle sue istanze e al suo sapere, al suo amore per la Musica e l’Arte, alla sua genialità, alla sua traboccante simpatia, ruotano i Grandi della nostra cittadina tra cui spicca, giovane, colto e raffinato, il grande violinista Salvo Cicero che poi, agli albori degli anni ‘80, ebbi il privilegio di applaudire a Malta, dove mi trovavo per motivi di lavoro. Lui, primo violino dell’Orchestra sinfonica siciliana, svettava in quel gioiellino del Teatro Manoel della Valletta tra un interminabile scrosciare di applausi. Un’ovazione. Pepita aveva ben visto. Fu proprio, lì, dicevo, a Malta, in quel contesto selvaggio e poetico, che il grande Salvatore Cicero mi parlò di Cefalù e delle persone di “piglio culturale” che vi abitavano. Una per tutte, lei, Pepita Misuraca. Là, fuori le mura della mitica Coephaledium, in un contesto di rari reperti megalitici, tra scogliere e antri, in uno dei quali pare dimorasse la ninfa Calypso, lì, proprio lì, marosi e faraglioni coniugarono il nome di Pepita con quello di Cefalù, riannodandolo e avvinghiandolo per un attimo alle note dello Stradivari del Maestro Cicero.
Pepita fondò pure, nel 1977, un Centro di Cultura che vide la confluenza di illustri nomi come Vincenzo Tusa, Amedeo Tullio, Giusto Monaco, Henri Bresc, Wolfang Kroenig e molti altri, insieme ai quali si fece portavoce dell’improrogabile necessità di dare avvio alle opere di restauro della Cattedrale.
Pepita, chi era costei? Forse Pepita era il suo nome di battaglia, più che il suo nomignolo, non so. Forse avrei dovuto chiederlo al Maestro Cicero. Forse, perché nel frattempo molte cose cambiarono: io lasciai Malta e il Maestro Cicero lasciò noi.
Forse “Pepita” era proprio il suo nome di battaglia perché, se non avesse avuto quello, non so se posso spingermi a tanto, non avrebbe osato frequentare il “Circolo Unione” di Cefalù frequentato da soli uomini, i cosiddetti “Signori” che, di pomeriggio, si sedevano puntulmente, estate o inverno, nella corte antistante il Circolo, osservatorio strategico sul Corso che permetteva di presiedere il passeggio delle Signore e di poter bacchettare con lo sguardo, e non solo, noi ragazze in minigonna, compresa la giovanissima e già coltissima Angela Di Francesca, vessillifera di innovativi valori sociali, che, raccogliendo il guanto di sfida lanciato da Pepita, osò scardinare, negli anni ’70, il muro di prevenzioni e ipocrisie del Circolo dei Signori dando inizio a un controcanto intorno a una femminista “avant la lettre”, lei, Pepita.
Una femminista poliedrica che ci lascia un segno anche nella scrittura con racconti e memorie: “I Personaggi”, 1973; “I miei racconti africani”, 1977; “Quando l’anima sa leggere”, 1982. Una donna d’azione che fa sentire la sua voce anche sul “Corriere delle Madonie”, la rivista locale diretta dal compianto Mario Alfredo La Grua.


Una femminista che “sa muoversi nello sfondo di tragedia che della Sicilia è il più naturale umano scenario”, come dice lei stessa in “Quando l’anima sa leggere”, il suo ultimo libro.
Una femminista che ci lascia dei messaggi e ci indica la strada; una donna combattiva che sa affrontare la Sicilia degli anni Venti e dei decenni successivi (che, certamente, non furono da meno) con piglio e decisione; una ragazza innamorata che del suo amore sa fare un vessillo di lotta e di conquiste sociali; una sposa raffinata ma non succube. Pepita: un vessillo per Cefalù che, ieri, le ha aperto le sue antiche porte e, oggi, le ha dedicato una strada, il dono migliore, dovuto, a una Donna che ha saputo indicare la strada a tutte noi donne!
C’era una volta Cefalù, Amarcord.

Teresa Triscari