In questi giorni da più parti e per diversi fini (dai peggiori beceri opportunismi politici alle grottesche idee di conservazione di suoli consegnatici dai nostri valorosi avi) si paventa e si alimenta la paura per l’uomo nero, come nelle filastrocche utilizzate per far addormentare bambini inquieti. A me pare che in questo preciso contesto a ciò servano tali parole, ad addormentare le coscienze di tutti. Si ventila, come angosciante e inevitabile, l’avvento del terzo grande e devastante conflitto mondiale senza che in fondo ci si renda conto che lo stiamo vivendo su altri livelli, non più trincee ma fughe, affondamenti, annegamenti, sbarchi e barricate. La fame, la disperazione, l’instabilità politica che attanaglia da sempre il continente africano, da cui tutto è stato generato, sta rigurgitando negli occhi di noi tranquilli occidentali un dato di fatto palese, incontestabile e per tanto da celare: l’ingiustizia del mondo per quello che tutti abbiamo concorso a rendere tale.
Ho scritto abbastanza a riguardo, adesso aggiungo questi versi, dove i frutti rossi che dovrebbero essere pomodori assumono le sembianze dei resti di chi fugge da carneficine certe nella speranza di salvarsi, almeno per un giorno.

Ho stracci di parole cucite sul petto
e morsi di anime, e sale e ferite sul ventre
ho caviglie veloci, da lasciar dietro il vento
e mani tese alla luna la notte
e ho le onde sugli occhi
che tracciano il solco tra i vivi
e i lamenti assenti di questi,
i morti, che porto con me sulle spalle
ché il sole ci lacera adesso
li lacera addosso
su quel che rimane di braccia,
unico vanto e nostro possesso
carta d’accesso ad un campo
a disseppellire la terra
prima che essa ci leghi a se stessa
per quel che sarà,

ed ho una nuova giornata, un mattino
da rendere grazia al signore
che ha indossato il cappello di paglia
e disegnato fumanti bestemmie nell’aria
e mi ha spinto, per quello che so
a raccoglierli ancora.