Nella “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne” l’artista siciliano Fabio Caci riflette sul rapporto tra femminilità e ambiente sociale con la serie “Abbi cura di me”: quattro dipinti a biro su carta di notevole bellezza e grande maestria tecnica. La donna come principio femminile che unisce alla delicatezza la forza autorigenerante che appartiene solo a chi nasce per dare nuova vita. La donna figlia, costretta nella mentalità di chi amando impone, la donna madre che supera ogni sofferenza per amore dei figli, la donna ferita che la società faticosamente cerca di proteggere, la donna consapevole che ormai – nonostante le umiliazioni – trova da sola la forza e il coraggio per andare avanti e guardare al domani.

Fabio Caci, artista siciliano maestro nella pittura a biro su carta, interpreta in quattro tavole “La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne” che cade, come ogni anno dal 1999, il 25 novembre. Caci ha maturato la piena padronanza di questa tecnica meticolosa, dove ogni nuovo tratto di penna rischia per una semplice sbavatura di compromettere l’intera opera; in questa serie, però, accentua la tessitura del fondale portandola ad una fittissima e ordinata trama: è quasi un simbolo della funzione in cui la donna – per tradizione – viene relegata. Costruire attraverso una rete di relazioni, filare e tessere, ripetere quasi ossessivamente la successione alienante dei doveri in cui è cristallizzata. Donna di casa, madre, educatrice, sposa e sostegno, conforto e continua capacità di rigenerarsi: tutto su di lei grava tenendola nell’ombra. E il mondo senza luce, si sa, è covo di pulsioni e istinti, di violenze sottili, di ruoli subalterni, di lacrime amare piante in silenzio.

L’Artista riprende uno schema classico che almeno da due millenni appartiene alla nostra cultura: basti pensare ai ritratti funebri del Fayyum, l’oasi egiziana famosa per le centinaia di ritratti funerari su legno giunti fino a noi. Attraverso il Rinascimento italiano, dall’Annunciata di Antonello da Messina all’Afrodite di Botticelli, la visione frontale, l’immobilità del gesto cristallizzato in una preziosa composizione, gli occhi ben aperti della protagonista continuano a guardarci attraverso i secoli, azzerando lo scorrere del tempo.

Fabio Caci ci dona quattro sguardi, due frontali, due leggermente obliqui ma sempre puntati sull’osservatore: l’essere e non l’immagine cerca di comunicare la propria, muta, sofferenza. Non siamo abituati a vedere la donna, in quanto tale, soggetto dell’arte. Per abitudine parliamo di “Nudo di donna” di Veneri, di ninfe e danzatrici, di bevitrici o prostitute: la donna è sempre inquadrata in un ruolo, in una funzione.

È già un riscatto trovare per quattro volte l’identità femminile al centro dell’opera; sono Donne ferite, offese dalla vita, dalla violenza di chi avrebbe, invece, rimanere semplicemente al loro fianco. Fabio Caci pone il soggetto in una potente ed equilibrata struttura geometrica. Le linee mediane, massimo equilibrio nella visione, reggono le spalle delicate del corpo femminile, sulla verticale si posa il capo stanco cercando un immaginario ristoro. Gli occhi e la bocca formano un triangolo con il vertice puntato verso il basso: è una figura di grande dinamicità, ricorda i passi della danza, l’oscillare dei fiori al vento. Trova il proprio equilibrio nel grande cerchio entro cui si agitano le mani, protettive o generose, che sfiorano il volto tumefatto e ferito.

Dalle carezze moraleggianti della famiglia, che allo stesso tempo medica e costringe la giovane donna pronta a fiorire alle manine morbide e quasi goffe dell’infanzia, che prendono a sé l’ematoma della mamma covando nel profondo il risentimento per non averla potuta proteggere nel momento del profondo bisogno. Dalle mani istituzionali, con il camice sanitario o la divisa, con l’ineffabile trasparenza della legge che nello spirito protegge ma spesso non ha né mezzi né forza per tradurre la tutela in concreta realtà; alle mani pragmatiche e risolute della donna che – sola nella folla – trova la forza per curarsi da sola.

L’arte di Fabio Caci ha la capacità di trarre da ogni stile e tempo le soluzioni più efficaci per dare naturalezza e forza alle proprie immagini. Le sue opere sono dense di richiami iconografici, presentano l’attualità ma si radicano profondamente nel passato: per questo ci appartengono, entrano in noi senza forzature. Non raccontano storie ma riflettono sull’intera società. Talvolta, come un frammento di corallo che richiama l’essere siciliano dell’Artista, appare nel girocollo la scarpa rossa simbolo del 25 novembre. È un’altra citazione nascosta dal mondo dell’arte: le “Zapatos Rojos” della messicana Elina Chauvet, un’installazione storica contro il femminicidio presentata nel 2009 a Ciudad Juarez. La violenza di genere purtroppo ci appartiene: a partire dal massacro delle sorelle Mirabal, il 25 novembre 1960, dopo oltre mezzo secolo la donna nella società, nella cultura e nell’arte continua ad essere oggetto. “Abbi cura di me” la serie in quattro dipinti a biro di Fabio Caci – oltre la bellezza dell’opera – le tributa con discrezione la dovuta centralità. La donna incolpevole è ancora ferita ma non rinnegata: un grande segno di speranza.

Massimiliano Reggiani con la collaborazione di Monica Cerrito