people rallying on street
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Riguardo alla visione comune del socialismo e del cristianesimo in difesa dei diritti umani prioritari, pur risultando anacronistica l’idea di un “socialismo evangelico”, dopo la sconfessione storica del socialismo reale e la condanna della teologia della liberazione da parte ecclesiastica, restano tuttavia in atto le ragioni di fondo che ne determinarono l’apparire sulla ribalta della storia. Che nel nostro ordine di idee va identificato con l’uscita della Rerum Novarum (1891) del papa Leone XIII.

Attualità che permane non tanto per quello che attiene al lato puramente economico, superato dal fallimento del socialismo reale anche su questo punto, quanto per il carattere non meno totalitario del comunismo di una società che va sempre più assimilandosi a quella strutturata secondo la visione di Aldous Huxley nel suo Brave New World (1931). Nella quale l’individuo umano è privo del bene supremo della sua libertà, essendo “il tutto in funzione del Progresso e della sua attuazione, inteso come l’Assoluto”.

«In questa società, sia pure in forma differente rispetto a quella descritta da Orwell in 1984, l’essere umano viene trasformato in un pallido spettro di quel che era in precedenza, svuotato per intero, in funzione del Progresso eretto a idolo. Nella convinzione di dargli tutto, questa società riduce l’uomo a un nulla e lo getta nel baratro del nichilismo” (G. Reale, Saggezza antica, p. 4).

Queste considerazioni ci inducono a cogliere nella prassi politica del nostro territorio quegli aspetti che, in virtù della valenza metastorica dell’umanitarismo socialista e del personalismo cristiano, ci fanno ritenere non superata l’idea di un’anima cristiana del socialismo. Identificando con essa quell’idea di socialismo operante nei nostri territori, la quale, anche quando si poneva più urgente il problema del riscatto sociale dei lavoratori proletari, non aveva i connotati della lotta di classe di stampo marxiano, ma veniva intesa come prassi umanitaria a favore delle classi più umili e diseredate della società.

Una prassi, questa, che trovava input e conforto nell’avvenuta stesura di una Carta costituzionale improntata al principio di solidarietà, sul fondamento della uguale dignità del lavoro di ogni specie e della parità dei cittadini di ogni genere e classe in riferimento ai diritti propri della persona umana. In cui era lecito ravvisare un compromesso al più alto livello tra la cultura socialista in ordine alla giustizia sociale e il solidarismo cattolico in riferimento alla uguale dignità della persona umana. Avvalorato, per altro, dal ruolo svolto dai parlamentari e dagli intellettuali cattolici nella elaborazione e nella stesura della medesima.

Sicché non era raro il caso di vedere nei fatti un felice coniugio tra l’aspirazione cristiana alla uguaglianza nella comune figliolanza divina e la prassi socialista della lotta democratica per il raggiungimento di un tale fine. Un coniugio generalmente vissuto a livello popolare, ma che, nella nostra esperienza, sembrava essere proprio anche di coloro i quali, pur al vertice della struttura locale del partito, erano uomini di sincera fede socialista e di altrettanta fede cristiana, mai nascosta e mai rinnegata.

La superiore articolazione del pensiero ci dice come non ci fosse un incolmabile iato tra quella che possiamo chiamare l’anima cristiana del socialismo e il lato sociale del cristianesimo. L’una e l’altro sacrificati, per disciplina di partito, da chi, a sinistra, dava al proprio credo politico un senso radicale in pratica, così come totalizzante sul lato teoretico, quasi fosse, nella presunzione della scientificità, l’adesione a una verità incomparabile con altra fede sul destino dell’uomo; e, dall’altra parte, da quella strumentalizzazione della fede religiosa in difesa di interessi che nei fatti ne erano la palese negazione, quando ad assurgere a paladini della morale cristiana erano persone di tutt’altro degne che di un simile ruolo.

Questo ha condizionato ad operare in campi contrapposti persone destinate a convivere, fatte salve alcune legittime eccezioni, legate al rispetto di insopprimibili problemi di coscienza, in un comprensivo schieramento socio-politico, quale dovrebbe essere, anche in Europa, quello volto ad agire in funzione di un condiviso progetto di bene comune sul lato sociale e in spirito di solidarietà nell’uso sostenibile delle risorse comunitarie: in quello spirito proprio della Unione europea auspicata dai fondatori.

Non possiamo nasconderci che si tratti di un’utopia, la quale, riesumandola a livello nazionale, proietterebbe in Europa, in condizioni storiche fortemente ostative, l’illusione delle “convergenze parallele” dell’italica prassi politica di centrosinistra, dove malgrado la condiscendenza popolare a un tale obiettivo di bene comune, nonché la lunga pratica di governo fino all’ipotesi del “compromesso storico” (fallito purtroppo tragicamente), mai si è pienamente e pacificamente tradotta in termini teleologicamente condivisibili.

E questo perché si trattava di una prassi discendente, da un lato, da una filosofia materialista applicata alla storia e, dall’altro, da un indirizzo di pensiero fideista. Due modi di pensare e di essere teoreticamente incompatibili. Donde il motivo dell’essere giustamente considerata utopica una rinnovata collaborazione politica tra persone provenienti dalle tradizionali aree socialista e cattolica democratica.

Una collaborazione che, però, di fatto ha avuto la sua esperienza storica, dimostrando la conciliabilità sul piano operativo degli anzidetti indirizzi di pensiero. Cosa che adesso, dopo la dimostrata inefficacia pratica del materialismo dialettico, avrebbe una ragione di contrasto in meno. Onde, oltre che possibile, sarebbe auspicabile essendo essa l’unica maniera per scongiurare gli effetti nefasti di una politica economica senza un fondamento etico, quale potrebbe essere quella di una economia liberista di mercato finalizzata al profitto sotto l’egida della concorrenza.

A favore di un tale auspicio non gioca ovviamente l’ostinata avversione al riconoscimento delle radici cristiane della cultura europea, che fa apparire irrilevante ai fini della politica comunitaria la dottrina sociale della Chiesa.

La quale, invece, è più che rilevante nella misura in cui essa si è venuta configurando, pur nelle antinomie della storia, da Ambrogio, che enunciava l’assunto di una Terra patrimonio universale, senza scarti e discriminazioni di sorta, a Paolo VI, il quale nella Populorum progressio sanciva il diritto dei popoli dell’indigenza al sostegno delle loro economie a carico doveroso dei paesi del benessere, senza contraccambi colonialistici; alla teoresi di un Maritain, che vedeva nell’ateismo del socialismo reale di marca sovietica una “eresia del cristianesimo”; alla trascurata (purtroppo) allocuzione di

Papa Francesco dinanzi al Parlamento Europeo basata sulla metafora del Pioppo di Clemente Rebora, per “richiamare – sono parole sue – l’importanza dell’apporto e della responsabilità europei allo sviluppo culturale dell’umanità”. Connessa, come non poteva non essere per il Pontefice, al vitale nutrimento delle sue radici cristiane.

Una dottrina, quella richiamata, di permanente attualità, compresa come essa si mostra delle problematiche cruciali del nostro tempo: efficace sotto il profilo delle soluzioni indicate e saggiamente ammonitrice contro politiche volte a ridurre il peso dell’Europa nelle scelte in ambito planetario.

Quali sarebbero quelle portate avanti dal nazionalismo sciovinista, denunciato per l’appunto nella Populorum progressio, quando questo portasse a frammentare quella Unione ispirata, ad inizio del processo fondativo, al principio di solidarietà tra gli stati del continente e verso il mondo esterno, soprattutto a favore di quello sottosviluppato. Essendo, invece, questa unità solidale la condizione sine qua non perché le nazioni che dello stesso continente fanno parte possano avere un ruolo significativo nello scacchiere mondiale della economia e della cultura.

Dove solo un’Europa unita, in virtù della sua storia, del suo peso economico e della sua valenza culturale può ambire a un ruolo paritario con le superpotenze mondiali. Mentre la fine dell’Unione europea, con la decadenza sul lato economico, toglierebbe all’Europa il ruolo di protagonista della politica mondiale e soprattutto quello di protagonista dello sviluppo culturale del genere umano.

Evento, questo, di immensurabile gravità, perché farebbe scivolare il mondo nell’abisso di un nichilismo senza il futuro di una civiltà degna di questo nome.

GIUSEPPE TERREGINO