In occasione della festa di San Jaucu Nicu, ho sovente scritto qualcosa legata al ricordo personale di quella “mezza processione” del giorno 24 luglio, che nella mia mente resta come l’espressione della devozione più genuina al nostro Protettore: senza enfasi coreografica, né dettagli folcloristici artatamente caricati fino a farli diventare fuorvianti. Tutto all’insegna di quello che dice il Papa di felice memoria Benedetto XVI nella commemorazione dell’Apostolo durante l’Udienza Generale del 21.06.2006.  

 “Da san Giacomo, dunque, – egli ricorda – possiamo imparare … la prontezza ad accogliere la chiamata del Signore anche quando ci chiede di lasciare la “barca” delle nostre sicurezze umane”. Esattamente come cantano le nostre donne ad inizio della coroncina propria della novena: Sacro eroe, figliol del tuono, / che di Cristo a un cenno solo/ratto lasci in abbandono /e i parenti e il patrio suolo. Col seguito di una invocazione, che è anche lo sfogo di un desiderio profondo: fa’ che anch’io con gran desio / tutto lasci e segua Iddio.

E successivamente: Degli Apostoli il primiero / pronto e fido ognor seguisti; / e da Erode ingiusto e fiero / il martirio conseguisti. Col proposito sincero di seguirne la sorte: De tu fa’ che l’alma mia / di tal sorte degna sia. Esattamente come mette in evidenza il Papa Ratzinger: “Egli ci indica al di là di ogni nostra illusoria presunzione, la disponibilità a testimoniarlo con coraggio, se necessario, fino al sacrificio supremo della vita. Così Giacomo il Maggiore si pone davanti a noi come esempio eloquente di generosa adesione a Cristo. Egli che inizialmente aveva chiesto, tramite sua madre, di sedere con il fratello accanto al Maestro nel suo regno, fu proprio il primo a bere il calice della passione, a condividere con gli Apostoli il martirio”.

Ecco cosa ci chiede la Chiesa di fare nelle manifestazioni esteriori del culto in riferimento al nostro Protettore. Quello, per l’appunto, che i nostri antenati hanno ben capito rifuggendo da forzature estranee allo spirito del Vangelo. E noi adesso siamo chiamati a rispettare la autenticità della nostra tradizione, senza complessi d’inferiorità nei confronti di altre più vistose e folcloristiche esternazioni, volte al richiamo turistico, in linea con quel secolarismo che distoglie dalle esigenze profonde dello spirito; le quali, però, non sono assenti nel nostro tempo, bensì soltanto coartate da una temperie consumisticamente godereccia.

Una nota val la pena di aggiungere, visto il movimento sul rinato interesse riguardo al “Cammino Iacopeo”. Ed è l’assenza nella nostra tradizione di un qualche legame concreto con tale pratica, che ha coinvolto per secoli aggregati ben numerosi di pellegrini, onde Dante identifica Giacomo col “Barone per cui laggiù si visita Galizia”, come lo addita a lui la sua bellissima guida nel Paradiso.  Senza, con questo, disconoscere la positività di tale pratica devozionale, dato che quel luogo – come fa notare Benedetto XVI – “divenne oggetto di grande venerazione e è tuttora meta di numerosi pellegrinaggi, non solo dall’Europa ma da tutto il mondo”.   Ed è giusto che se ne consideri l’importanza sul lato spirituale, proprio per rispondere a quella esigenza che nasce dalla vita dello spirito troppo sottovalutata nella temperie moderna. Quel che bisognerebbe evitare, però, sarebbe il rincorrere le mode consumistiche che tendono a ridurre il pellegrinaggio a una mera esperienza turistica, tenendo soprattutto conto, nel nostro caso, che il pellegrinaggio a Compostella aveva ragione di essere in virtù della riconosciuta presenza del corpo – a prescindere da come fosse giunto in quel luogo – del primo di quei martiri il cui sangue ha reso fecondo il terreno della cristianità.

In questo ordine di idee, la nostra tradizione, così distaccata dalle appropriazioni nazionalistiche della figura del Santo, che ne hanno talvolta alterato la identità spirituale, potrebbe ben corrispondere all’animus delle madri a piedi scalzi dietro la statua del Protettore in preghiera per la salute non solo fisica dei propri cari. Il che equivarrebbe a fare del pellegrinaggio una anticipazione del Regno di Dio sulla terra.

GIUSEPPE TERREGINO