Era il tempo della vendemmia.
Nelle vie del paese rimanevano solo poche zie e qualche vecchio da letto. Le famiglie, invece, dal padre del padre al picciriddu da latte di minna si stringevano nelle stanze delle campagne.
Già dal canto del gallo a decina tra i vigneti. C’erano le nonne dai culi grossi di biscotti fatti in casa, c’erano i nonni che nel taschino si tenevano i coltellini.
C’erano le mamme e le zie, quelle maritate e quelle schette, con il fadale dalle tasche sempre piene di qualcosa e che sembravano non svuotarsi mai anche a tirare fuori sempre qualcosa.
Ad uno ad uno i grappoli viola con i loro acini gonfi di succo riempivano le ceste di vimini intrecciato. I picciriddi a mani nude con gli stivaletti di gomma ai piedi ne raccoglievano qualcuno con tanto amore, che il nonno così aveva detto.
Quando non ce n’erano più aggrappati alla pianta, allora tra risate di bocche larghe di chiacchiere e ritornelli di cantate tramandate, con braccia forti il nonno, lo zio e il papà caricavano le ceste e di passo a passo, quasi in una danza tribale fino al palmento dove con piedi nudi cominciava uno tra i balli più belli e chiassosi che io abbia mai ballato.
Non si poteva fare altro che marciare e non si voleva, per la verità, fare altro.
L’odore era quello del mosto: così potente che sembravano ubriacarsi i bambini mentre respiravano con le loro guance rosse e le unghia annerite.
Qualche nonna nelle pentole intanto lasciava che le carote e le patate, il sedano e il pomodoro, le cipolle e i fagioli cuocessero lentamente per fare pieni di minestroni i piatti. Il vino, quello della vendemmia dell’anno andato, il formaggio del latte munto da qualche mese, se ne stavano sulla tovaglia rattoppata, sempre la stessa ormai da tanti anni. Era distesa lunghissima con i fiorellini azzurri o rosa sulla tavola più grande che esista. E attorno non saprei con precisione, allora io non sapevo contare, ma a volerne dare conto, almeno una trentina di sedie. Ah, ce ne fosse stata una uguale all’altra. Tutte, dico tutte, diverse.
Era solo trascorso mezzogiorno e attorno a quella tavola sedevano tutti. Con i mestoli in alluminio i piatti iniziavano a riempirsi e il vapore del minestrone che si levava appannava gli occhiali del nonno. Una preghiera e così sia, chè Dio non ha mai lasciato digiuno nessuno. Cucchiai in mano e le bocche si aprivano. Che sapore aveva quel minestrone!
Riempiva le pance e riempiva i cuori. Ed oggi a pensarci riempie di pensieri buoni la testa.
Gli occhi sembrano rivedere, rivederla la mia grande famiglia, rivedere quelle facce segnate da rughe, sporcate dal sudore della vendemmia e dalla polvere della campagna; rivederle belle ma così belle che a me pare avere visto capolavori di artista di genio.
Belle facce nei loro sorrisi larghi, nelle loro bocche da buone parole, negli sguardi leggeri di vita vissuta.
Che sapore aveva quel minestrone! Che sapore quella vita! Quella vita …che è stata, grazie a Dio, proprio la mia. 
Consuelo Maria Valenza