Le ginocchia le avevamo subissate. Non so se fossero le scarpe che di corse non ne volevano sapere o magari la strada strafatta di sanpietrini sia a scendere sia a salire. Fatto sta che ci portavamo in giro, noi e le ginocchia, con la fierezza dei sopravvissuti anche a dispetto delle lamentele delle donne, che erano madri zie nonne.

Vestiti di sudore, non per il caldo, perché a Geraci non era facile soffiasse vento di scirocco, ma perché a correre correvamo cortili e trazzere, viuzze di muntate e di pinnine. Vestiti di odori: non erano quelli del mattino svegliato nelle vasche riempite di acque e sapone. Odoravamo di giochi.

Avevamo chi sette chi dieci, chi otto chi nove. Di anni, intendo. Eravamo non so dire quanti esattamente ma di certo mai meno di venti. Figli di madri e padri ma poi figli della signora Pina d’a vanedda, della zia Maraganna e non mancava mai una Saridda, quella che c’era di scantarisi perché faceva di porto e di riporto: passava il suo tempo invecchiato a lavorare la maglia e a guardare, con l’occhio petulante di un militare, quello che accadeva da dietro la finestra. Poi ne faceva rapporto a chi di dovere. Eravamo figli della strada.

Non che tutti fossero proprio felici: ad esempio, c’era lo zu Antonio. Abitava dietro una tenda verde scolorito e quando di notte e notte passavamo e suonavamo alla sua porta lui ci vanniava; quando poi gridavamo come mercanti senza mercato lui, insonne e assonnato, riempiva cati ed eravamo zuppi come avissi chiuvutu. A raccontarlo a casa manco conforto avevamo, anzi, probabilmente n’avissimu pigghiate, di legnate intendo.

Se con la luce del sole, mattina o pomeriggio che fosse, saltavamo su caselle gessate nterra contando e ricontando o se di corde ed elastici facevamo i nostri giochi, la sera ci organizzavamo come bande di banditi. A quell’ ora nella famosa via Alloro o n’à vanedda s’assittavano le donne e cominciavano a ricamare con fili di parole i loro sparramenti: ce ne erano alcune grosse di culo e di minne, altre minute come spaghetti ingialliti, altre che nascondevano la loro furbizia sotto grani di rosari. Gli uomini, perlopiu, arriminavano pentoloni di fave, capitava che alcuni suonassero strumenti e strumentini e che altri cuntavano cunti. Alcuni, e niente, se ne stavano muti come pietre e capivi che erano cristiani perché per qualche fava aprivano la bocca.

Noi, nella certezza che loro, i grandi, erano impegnati e non ci avrebbero disturbati, cominciavamo. Se non suonavamo i campanelli per sdruvigghiare la vecchia o per fari gridari u Zu ‘Ntonio, se non rubavamo mutanni e cuazetti stinnute, allora iniziavamo il nascondino. Di solito erano sempre le stesse a contare, facce al muro. Gli altri s’ammucciavano ed erano stalle, salamoie, cantine. Tra formaggi, fieno, muli, galline, botti e otri, ce ne stavamo nascosti per essere scoperti.

E il gioco continuava fino a che le grida non ci trovavano prima: le madri tutte c’a arricughìanu come fa il gallo con le galline e qualcuno si pigliava qualche scappellotto perché chissà c’avia cumminatu. Quasi tutte le madri si schifiavano perché a volere sapere dove eravamo stati era facile: bastava sentire gli odori. E puzzavamo magari come muli nelle stalle o come formaggi nelle salamoie o come polvere sulle botti. Puzzavamo di strade e di cuntintizza, di ammucciuni e pure du Zu ‘Ntonio che finalmente, da dietro la sua tenda verde, s’appinnicava e durmìa. La moglie dice che nel sonno parlava e si incazzava. Chissà, e mischino me lo chiedo ancora, magari sognava di noi. Ma pace e pacienza, sarebbe durato ancora qualche simanata stu burdellu. La nebbia che si fa presto nell’agosto di paese, lì a Geraci, avrebbe riportato i figghi e le loro ginocchia, sbucciate e non si sa se per le scarpe o per le strada, nelle loro case e u burdellu, sia lodato u Signuruzzu, avissi finutu.

Foto da https://www.facebook.com/GeraciSiculo