Attualità

Le Aree interne e il loro declino irreversibile

Nei giorni scorsi è stato pubblicato su Il fatto Quotidiano un interessante articolo che affronta l’inesorabile declino delle arere interne del nostro paese:c’è un passaggio, in un documento ministeriale pubblicato quasi in sordina all’inizio dell’estate, che dovrebbe far tremare le fondamenta della nostra Repubblica,afferma in una sua analisi Luigi Peduto. È una frase contenuta a pagina 45 del nuovo Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027 (PSNAI), approvato con grande ritardo e redatto tra le nebbie dei dipartimenti centrali. Si trova nell’“obiettivo 4: Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile”. E recita: “Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma nemmeno essere abbandonate a se stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”.

Non è una battuta, né un refuso. È la nuova linea di indirizzo strategico dello Stato verso centinaia di Comuni italiani, per lo più montani, collinari o rurali. Si tratta di un cambio di paradigma silenzioso ma devastante: si rinuncia ufficialmente all’idea di invertire la tendenza allo spopolamento. Si pianifica il declino. Lo si accompagna. Lo si normalizza.

Per capire la portata della questione, bisogna risalire alla definizione di Aree Interne: sono quasi 4.000 Comuni italiani, sparsi in ogni regione, che si trovano lontani dai centri dove si concentrano servizi essenziali come sanità, istruzione e mobilità. Coinvolgono oltre 13 milioni di cittadini, il 23% della popolazione, distribuiti su quasi il 60% del territorio nazionale. In pratica, l’Italia profonda. Quella che custodisce boschi, pascoli, acque, borghi storici, comunità coese. E che oggi si vede diagnosticare una malattia terminale.

Nel PSNAI, approvato nel marzo 2025 ma diffuso solo ora, lo Stato compie una distinzione netta tra territori rilanciabili e territori senza speranza. I secondi, si legge, hanno una struttura demografica compromessa, con popolazione in forte declino e basse prospettive di sviluppo. E quindi, si conclude, non possono avere obiettivi di rilancio. Ma cosa significa, in pratica? Significa che non si investirà più per trattenere giovani o attrarne di nuovi. Che non si costruiranno più servizi in quei luoghi. Che si pianificherà una dignitosa decadenza: un welfare del tramonto che fornisca badanti e medicine, ma non opportunità né speranza.

Un gruppo di studiosi, amministratori e attivisti, riuniti il 12 giugno dal CERSTE, ha avuto il coraggio di dire le cose come stanno: questo documento è un verdetto, non una strategia. E viola in spirito l’articolo 3 della Costituzione, là dove parla dell’impegno della Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano l’eguaglianza e la partecipazione di tutti i cittadini. Invece di rimuoverli, li si consacra. Si adottano criteri tecnici tempi di percorrenza, densità, indicatori statistici che ignorano la realtà sociale e culturale dei luoghi. Si dimentica che molte fragilità sono state indotte da scelte politiche e tagli strutturali. Che non si può misurare la vitalità di un borgo solo coi numeri dell’anagrafe.

Le implicazioni economiche sono enormi. Si accentua la polarizzazione tra città affollate e campagne abbandonate. Si crea un’Italia a doppia velocità dove le periferie non sono più nemmeno oggetto di recupero, ma di gestione passiva. Eppure, proprio in quei territori ci sarebbero opportunità strategiche: agricoltura sostenibile, turismo lento, energie rinnovabili, coesione sociale, difesa idro-geologica. Il paradosso è che nel resto d’Europa, dalla Francia ai Paesi nordici , le aree rurali sono oggetto di investimenti e valorizzazione. Hanno rappresentanza istituzionale, accesso a fondi dedicati, programmi a lungo termine. In Italia, invece, si preferisce accompagnare al tramonto.

Non è solo un errore tecnico. È un messaggio devastante: Non contate più. È anche una questione di dignità: le comunità che resistono nelle Aree Interne non vogliono compassione. Vogliono giustizia, possibilità, strumenti. Questo è il punto che il PSNAI ignora. Le Aree Interne non sono solo problemi da contenere, come pare emergere dal documento. Sono risorse da liberare.

E se l’Italia vuole davvero essere una nazione coesa, deve smettere di pensare in termini di resa amministrativa e tornare a fare politica, nel senso più alto: ascoltare, valorizzare, scegliere. Perché un Paese che dichiara la fine di sé stesso, un borgo alla volta, sta smettendo di essere una Repubblica.

redazione

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