Nel giorno in cui, dopo trent’anni, si torna a parlare di depistaggi e dei legami tra la massoneria e la mafia, dell’operato del magistrato Giovanni Tinebra, viene presentato a Sperlinga il libro di Roberta Gatani, Cinquantasette giorni, dedicato agli ultimi giorni di Paolo Borsellino.

Ogni strage, nella sua efferatezza plateale, viene compiuta con un fine molto preciso dai suoi artefici: distruggere il senso morale di una popolazione intera.Le reazioni ad una strage sono quasi sempre le stesse: sconcerto, rivolta interiore, e poi il senso di impotenza di fronte alla grandiosa manifestazione del male, e quindi la rassegnazione.

Ma è quella rassegnazione, se la si lascia agire, il danno peggiore: nella rassegnazione si consumano tutte le nostre fibre etiche, la nostra fede laica nelle istituzioni e nella giustizia umana.

Se alla messinscena macabra di una strage non segue la presa di coscienza di ciò che siamo diventati, e quindi la protesta, il bisogno di reagire, il richiamo verso un cambiamento urgente e necessario, rischiamo veramente, come nazione, di perdere la nostra anima.

E’ questo il fine profondo di qualunque strage: toglierci l’anima.

Ma vi sono delle eccezioni, fortunatamente.

La strage di via D’Amelio, compiuta il 19 luglio del 1992, per eliminare il giudice Paolo Borsellino, fu seguita da un moto di indignazione collettiva disperata e orgogliosa di tutta la popolazione palermitana e siciliana. Ogni Siciliano che ha vissuto quel momento, che fosse in un’età in cui già era in grado di comprendere il mondo e la vita, ricorda esattamente ogni particolare del luogo in cui si trovava in quel momento, la luce, la temperatura, le persone che aveva intorno, ogni azione, ogni lacrima versata, ogni parola detta.

E’ stata una svolta per le nostre coscienze: dopo quel momento, per noi Siciliani, niente è stato più lo stesso.Con la strage di via D’Amelio, e con la strage di Capaci, abbiamo tutti preso coscienza di trovarci a vivere all’interno di uno Stato che non solo non tutela i suoi figli più preziosi, ma che addirittura li espone volontariamente alla vendetta dei gruppi criminali, e che, forse, ordisce esso stesso la trama per eliminarli.

Ci è mancata la terra sotto i piedi. Ma abbiamo reagito.Anche se la scelta tra ottimismo e pessimismo è stata difficile.In questi giorni, da un passato vecchio di trent’anni, riemerge un biglietto, inviato il 19 luglio 1992 dal superpoliziotto Arnaldo La Barbera al Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra. In esso si comunica l’invio di una valigetta appartenuta al giudice Borsellino, di una valigetta e di un’agenda prelevate sul luogo della strage. Di quell’agenda, già il giorno dopo, si perdono le tracce. Giovanni Tinebra era stato messo in quegli anni a capo delle indagini sulla strage di Capaci, ma, inspiegabilmente, non volle mai ascoltare le deduzioni di Paolo Borsellino a proposito dell’attentato perpetrato contro Giovanni Falcone. Ritenne invece testimone attendibile, negli anni a seguire, uno strano personaggio, totalmente analfabeta e incapace di mettere assieme due frasi di senso compiuto, il pentito Giuseppe Scarantino, che venne poi definito testimone inattendibile: un pentito confezionato su misura, insomma, a cui qualcuno metteva in bocca dichiarazioni atte a depistare le indagini sulla strage.

Di Giovanni Tinebra parlò negli anni Novanta anche Angelo Siino, denominato il ministro dei lavori pubblici della mafia, il quale racconta dei suoi rapporti con il massone Salvatore Spinello. Si tratta di una vecchia intercettazione, riletta in questi giorni dai magistrati di Caltanissetta. In essa Spinello diceva: “Tinebra è dei nostri… della loggia di Nicosia… Io non vado ad abbracciarlo pubblicamente per non comprometterlo”.

Un particolare da cui emerge una trama di connivenze che lega le logge massoniche sparse in tutta Italia ai progetti della mafia. L’obiettivo di Spinello era infatti quello di ricreare una vasta rete massonica, sul modello della P2. Una trama complessa, i cui personaggi coinvolti appartenevano contemporaneamente alle logge massoniche coperte e ad associazioni come il Lions, il Kiwanis, il Rotary. Personaggi ricchi e influenti, i cui interessi erano compromessi dalle indagini di Falcone e Borsellino.

Una trama di cui ha condotto un’analisi dettagliata Carlo Palermo nel suo libro La Bestia.L’ipotesi che dietro le stragi del 1992 ci siano logge massoniche deviate diventa sempre più credibile.Ma anche questo particolare riemerge adesso, dal passato. Adesso che tutti o quasi i protagonisti della vicenda sono ormai morti. Frammenti di verità, occultate per anni, che ci vengono gettate sotto gli occhi oggi, come un contentino postumo alla nostra esigenza di giustizia.

Proprio nel giorno in cui il paese di Nicosia, paese in cui operò per decenni Giovanni Tinebra, si risveglia sconcertato dalla pesante accusa di avere ospitato uno dei tanti nuclei della trama massonica legata alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, è stato presentato il libro di Roberta Gatani, nipote di Paolo Borsellino, dedicato agli ultimi 57 giorni del giudice palermitano. Nella piccola biblioteca di Sperlinga si è riunita una folla di cittadini: una numerosa rappresentanza delle associazioni di quel territorio.

Tutti abbiamo ascoltato, trattenendo le lacrime, le parole con cui Roberta racconta quei giorni. Tutti abbiamo rivissuto la commozione del momento della strage. Tutti abbiamo ricordato nitidamente quei giorni, quelle ore: tutti abbiamo scoperto di avere ancora nel cuore la traccia di qual lutto collettivo.

Alla domanda su cosa ne pensa lei, Roberta, nipote di un magistrato ucciso dalla mafia, dallo Stato, su queste notizie che riemergono da un passato così lontano, afferma: “Credo che ormai siano maturi i tempi perché riappaia l’ agenda rossa di Paolo Borsellino. Magari con qualche pagina strappata. Molti dei nomi scritti su quell’ agenda appartengono a persone ormai morte da tempo”.Un’affermzione amara. La distanza temporale così ampia tra i fatti e questi baralumi di verità, conferma in fondo l’oscuro legame tra Stato e mafia.

La verità, avrebbe avuto bisogno di giudici per essere accertata, e non, come a breve saremo ridotti a fare, dell’opera degli storici.

Stefano Vespo