Venerdì 23 agosto, ore 21:00 in piazza monumento a Gratteri lo spettacolo teatrale “Litologhìa. Parole come pietre”. Ideazione e produzione Marilena La Rosa, testi e interpretazione Giovanna Corrao.
Parola come pietra.
La parola può edificare mura e castelli, può
essere solido fondamento, trasformarsi in picchi
scoscesi, cime irte, ciottoli resi perfetti dallo
scorrere del fiume, può costruire ripari e fortezze
inespugnabili.
La parola tiene in vita, è lotta, riscatto, accusa,
condanna e salvezza.
Può anche diventare arma, gravame che uccide,
violenza che lapida. Può essere barriera, scoglio
che inabissa la nave arresa alla tempesta, frana
che travolge e sotterra, lapide che ferma il tempo
e raccoglie il pianto.
La parola crea, perché ciò
che non possiede un
nome non esiste. Ed è la
parola che rende l’uomo
onnipotente, deomorfo,
spirito creatore perché è
lui, l’uomo, che dà la vita a
ciò a cui attribuisce un
nome.
Chi non ha più nome e nessuno che lo ricordi si
perde come un granello di sabbia nello scorrere
del tempo. Di lui non resterà memoria.
Si può morire sotto tumuli di parole.
Si possono privare uomini e donne della parola,
ridurli al silenzio per ferire, mutilare, annientare.
Le parole possono ergersi ad eterno testamento,
possono diventare altare e monumento al
ricordo.
Lo vedrete e lo udirete attraverso le parole di tre
donne.
Demetra.
Medea.
Le loro parole sono pietre: invocano salvezza,
infliggono condanne.
Pesano da millenni come tumuli sulle coscienze
degli dei e degli uomini.
Demetra ha perduto la figlia. La cerca, si
dispera. Condanna e maledice gli dei per la loro
iniquità. Punisce la terra privandola di un’eterna
primavera per affermare il suo dolore. E questo
dolore lo grida con parole tremende, dovunque
e a chiunque.
Ogni sua parola è pietra che pesa, che grava
sull’anima. Ade ha portato sua figlia negli Inferi,
l’ha rapita e resa sua sposa. E la picciridda, la
bambina, la κόρη sua, Persefone, è ora nel
sottosuolo, dove nulla può essere allietato dalla
carezza del vento, dal luccichio del sole, dal
profumo dei fiori. Ade ha costretto sua figlia al
buio. Sua figlia, la figlia della dea dell’agricoltura
e del grano, della dea che regala agli uomini il
cielo terso e la felicità del raccolto.
A lei, proprio a lei, gli dei hanno recato
quest’offesa! Zeus, suo fratello, ha acconsentito
che soffrisse lo strazio più atroce.
A lei hanno tolto il bene più prezioso: sua figlia!
Che siano maledetti, dei e uomini, e che soffrano
il rigore dell’inverno e la fame, che siano privati
della luce, della natura e del grano. Che siano
seppelliti dalle maledizioni.
Le parole di Demetra cadono come macigni
gravidi del suo dolore.
Medea, ha perso tutto per amore: la sua
famiglia, la patria, l’onore, la libertà. Per Giasone
ha tradito il padre, ha consegnato il vello d’oro
agli Argonauti. Ma ora Giasone l’ha umiliata,
ferita, calpestata. Dopo averle dato due figli, l’ha
trascinata in terre lontane, a Corinto, e lì è
diventata la straniera, la strega, la diversa, la
barbara. Giasone l’ha abbandonata e ha
sposato un’altra, una principessa, e a lei è
rimasta soltanto la crudele sassaiola di parole, di
rifiuti, di esclusioni. Può Medea permettere che i
figli subiscano lo stesso martirio che il Fato ha
inflitto a lei?
I suoi figli, carne della sua carne, sangue del suo
sangue, non potranno, non dovranno sopportare
il suo stesso dolore.
I suoi figli non hanno colpe, sono anime
innocenti. I suoi figli non devono vivere la sua
stessa pena.
I suoi figli non devono vivere.
Qual è la maledizione più grande che può essere
inflitta a un uomo? Quella di non essere creduto.
Cassandra ha avuto l’ardire di rifiutare le
profferte amorose di Apollo e questo l’ha
condannata al più atroce dei destini: vede
chiaramente la pergamena del futuro srotolarsi
davanti ai suoi occhi, il libro del dolore e della
sofferenza umana aprirsi e palesarsi a chiare
lettere, sente con nitidezza grida di dolore e urla
di terrore, vede uomini, donne, bambini sgozzati,
annegati nel proprio sangue, avvolti nelle
fiamme della città oltraggiata dagli Achei, ma
nulla può fare perché la sua maledizione è quella
di non essere ascoltata né creduta. La
disperazione le divampa dentro, la contorce in
un dolore straziante ma a niente valgono le sue
grida e le sue preghiere supplicanti. Prova a
lanciare parole di fuoco, come sassi a una
finestra, come pietre nell’ordito limpido di uno
stagno nella speranza vana che qualcuno le
raccolga. Ma rimangono a terra, sillabe
stecchite, distorte e incomprensibili, versi
animaleschi che non possono essere in nessuno
modo accolti dalle orecchie degli uomini.
Chi non può essere capito, compreso e ascoltato
è destinato all’isolamento, all’emarginazione,
alla riprovazione.
E alla pazzia.
Marilena La Rosa
Giovanna Corrao, insegnante di Lettere, speaker
radiofonica, nel corso degli anni scrive e raccoglie le sue
esperienze di vita mettendole in versi, tenendo presente
che la lingua è il primo mezzo di comunicazione per
innescare il processo conoscitivo che nutre l’animo
umano, pubblica Storie di ordinaria ironia. Col tempo,
decide di mettere per iscritto anche dei monologhi dalla
forte valenza espressiva drammatica ed è così che
nasce la propensione per la scrittura teatrale. La mimesi
è la cifra peculiare dell’autrice.
Marilena La Rosa è insegnante di Italiano e Latino. Ha
scritto per Giunti, Rizzoli e Palumbo diversi manuali di
letteratura e di scrittura per la scuola. È autrice di un
romanzo, La sarta, edito da Mohicani. Recensisce
romanzi e raccolte poetiche per numerose testate
giornalistiche. Si occupa di formazione per docenti e
studenti sulla scrittura e la letteratura italiana, in
particolare sulla Divina Commedia. Dal 2020, è
presidentessa della Settimana di Studi danteschi.
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