Nel giorno in cui ricorre il 32esimo anniversario della scomparsa di Luciana Frezza, avvenuta il 30 giugno 1992, pubblichiamo l’intervento di Rosalba Gallà, relativo al testo che raccoglie tutte le sue opere, “Comunione col fuoco”, in occasione della cerimonia di intitolazione di una strada alla poetessa e del suo ricordo presso la Sala delle Capriate del Comune di Cefalù l’8 marzo 2024, Giornata internazionale della donna. Da sottolineare la volontà dell’Amministrazione comunale di volere ricordare, con queste importanti iniziative, figure femminili che hanno dato lustro alla nostra città: nella stessa cerimonia è stata ricordata, a cura di Santa Franco, anche la poetessa Elvira Guarnera (1877 – 1955), alla quale è stato intitolato il cortile di fronte al Liceo classico “Mandralisca”, presso il quale ha svolto il suo insegnamento per tanti anni.
LA “COMUNIONE COL FUOCO” DI LUCIANA FREZZA
Pensare di poter dare un’immagine esauriente della ricca personalità poetica e narrativa di Luciana Frezza, nel tempo breve di un intervento legato all’importante iniziativa dell’Amministrazione comunale di intitolarle una via cittadina, è davvero velleitario e inevitabilmente fallimentare. Con grande interesse prima e passione dopo mi sono accostata a questo importante volume che ne raccoglie l’opera complessiva e mi sono convinta che sarebbe necessario dedicare alla sua autrice molto più tempo per ricostruire il bellissimo e complesso mosaico che è la sua opera omnia, la sua “Comunione col fuoco”, che costituisce un superbo dialogo con la cultura italiana ed europea, un dialogo che l’ha arricchita, che ha creato un magma di fuoco da cui è emersa una produzione di grande originalità e spessore. E a questo dialogo, ricco e variegato, posso oggi solo accennare.
I temi da trattare sarebbero davvero tanti, a partire dalla sua appassionata attività di traduttrice dei poeti decadenti e simbolisti francesi, dei quali ha esaltato, in un reciproco scambio di tensione lirica e con l’inevitabile influsso della sua profonda e complessa personalità, tutta la lezione relativa alla funzione evocativa e allusiva della parola poetica, con la possibilità di cogliere le inedite e misteriose corrispondenze tra le cose, alla ricerca dei significati più nascosti, con una fitta rete di analogie e rimandi tra i fenomeni naturali, gli ambienti e gli stati d’animo. Così gli elementi del paesaggio si caricano di significati simbolici, con uno stile spesso impressionistico che, per certi versi, evoca la poetica pascoliana, nella quale, alla ricerca del termine esatto e specifico per indicare un aspetto della natura, corrisponde un superamento di carattere simbolico che sfocia nella dimensione esistenziale, in una complessa vicenda interiore dietro l’apparente semplicità del singolo aspetto naturalistico e ambientale.
Come non approfondire, d’altra parte, il suo forte legame culturale con i due monumenti della letteratura italiana del Novecento, Montale e Ungaretti? Luciana Frezza si è laureata presso l’Università La Sapienza di Roma discutendo una tesi su Eugenio Montale, avendo come relatore Giuseppe Ungaretti. Del primo c’è, in molti aspetti della sua produzione poetica, la presenza di oggetti, immagini, aspetti della natura, luoghi che diventano emblemi della condizione umana, alla ricerca di un varco, di “uno sbaglio di Natura” che permetta miracolosamente di comprendere l’essenza delle cose e il significato dell’esistenza, “l’errore nel disegno”, diceLuciana Frezza,“discernere / mischiati alle figure d’innocenza / i neri semi del male, /questo rifarmi intera / con fatica è l’ergastolo / della mia città (“Luoghi”, in “Un tempo di speranza”). Importanza assumono gli oggetti, come “gingilli di creta”, “miei ninnoli”, “fragili giocattoli” “il santo di terracotta scrostato”,quelle generiche cianfrusaglie che spesso accompagnano le nostre vite e in cui si avverte anche una tendenza crepuscolare: “Allora è dolce per l’ombra tenera camminare piano / guardando i miei ninnoli togliere grani di polvere, / pensando quale si potrebbe in dono mandare / quale affidare al tepore di mani amiche (“Vecchia dedica”, in “La farfalla e la rosa”). Al pessimismo, alla consapevolezza dell’illusorietà del tutto si unisce talvolta, in Luciana Frezza, una leggera ironia e un certo distacco che nasce da amare consapevolezze, che accompagnano lo sguardo sul mondo e il desiderio profondo di trattenere “l’illusione che dilegua”. E poi Ungaretti, il suo relatore, il maestro del Novecento, che grande impulso ha dato al rinnovamento del linguaggio poetico, alla ricerca della parola carica di significati profondi per cogliere l’essenza delle cose attraverso un processo di riduzione in cui la singola parola emerge da spazi bianchi, dai silenzi, dalle profondità dell’io, dal “porto sepolto” che è dentro di noi. Da questo punto di vista, l’opera “Parabola sub” (1985 – 1987) costituisce probabilmente la più importante dichiarazione di poetica della nostra autrice, con la sua palese necessità di non volersi fermare alla superficie ma di volere scavare nel profondo, sia delle viscere della terra (basti pensare a “Euridice”e Orfeo, a “Venere”e Adonee a “Iside”e Osiride, tutti miti del sottosuolo, dei riti misterici e orfici), sia sott’acqua, come un sub che esplora sotto la schiuma della superficie, nel silenzio e in una visione sempre più breve man mano che si allontana dalla luce filtrata dall’acqua. Un cambio di prospettiva nello sguardo sulle cose, che allontana la Frezza dai residui realistici delle raccolte precedenti per un approdo verso situazioni oniriche e surreali, che scavano nelle profondità dell’io. Il sogno diventa salvifico (forse solo così Euridice si sarebbe potuta salvare, nel sogno, piuttosto che morire due volte: la poesia non appartiene a Orfeo ma, in questo cambio di prospettiva dalla profondità, a Euridice) e dal sogno si riemerge con uno sguardo visionario che non scioglie tutti i nodi, mantenendo un “inesauribile segreto”, citando Ungaretti.
Bellissime le parole di Luciana Frezza riportate da Carlo Bordini, a proposito del volume “Parabola sub”: “Il libro è un tuffo. Parabola sub significa andare a picco perché è andata male, ma nello stesso tempo si approfitta di questo andare a picco per saperne di più […] Scendendo giù si può vedere se stessi come chi ha pensato e sognato tutto. L’intenzione è quella di esplorare in profondità, di battersi. Un venirne poi fuori terapeutico. Di toccare livelli inesplorati. Nel tuffo, dove c’è sicuramente la volontà di risalire”. Queste parole evocano quelle di Umberto Saba: “Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica. Con paura il cuore le si accosta, che più non l’abbandona”.
Come non approfondire, inoltre, il rapporto simbiotico e totale tra vita e poesia: nel racconto poetico c’è tutta la vita di Luciana Frezza, non solo come biografia esteriore in cui compaiono i luoghi (San Mauro Castelverde, Roma, Milano, i ritorni in Sicilia verso Marmora e Cefalù) e le persone della sua vita, tutte presenti nella sua opera, ma soprattutto come geografia dell’anima. “Senti il pennino del Tempo / che ripassa e delimita / la mappa del tuo mondo […] / l’Atlante si apre da solo / alle pagine più usate / le fortificazioni / di confine rotte in più punti / avanzano luoghi di neve / senza tue impronte”(“Geografie”, in “Parabola sub”). Nelle geografie dell’anima, un luogo importante e sicuramente evocato in più punti è Cefalù, in particolare nelle poesie “Vecchi di Cefalù” e “Cefalù” (in “Cefalù e altre poesie”) e in “Ancora Cefalù” (in “Un tempo di speranza”), tutte con un ampio andamento poetico-narrativo.
Elemento unificante di tutto il percorso poetico è, dunque, la ricerca del senso della vita, ricerca spesso travagliata e dolorosa, nel coerente tentativo di andare sempre nel profondo. Ed è la stessa autrice a dare indicazioni in qualche nota al lettore “che avrà la pazienza di addentrarsi e di circolare fra questi cumuli di fatti privati, che di poetico hanno l’intenzione, in quanto frutto di un privato modo di vivere di cui si vuole trasmettere il ricordo e la coscienza” (in “Un tempo di speranza”). Ma la poesia trascende il privato e le particolari geografie familiari, amicali e culturali all’interno delle quali la poetessa si trova a vivere e diventa canto universale della condizione umana, attraversata da sentimenti e stati d’animo ora malinconici, ora nostalgici, ora struggenti, plasmati da incanto e disincanto, da attaccamento alla realtà e fughe verso mondi altri, da briciole di felicità e grumi e nodi mai sciolti. Apparenti contraddizioni che rivelano la grande coerenza di fondo di una figlia, sorella, madre, moglie, nipote, amica, poetessa che, in ogni luogo dove ha sostato e transitato, mai sentendosi pienamente appartenente, tanto da dire a Cefalù “sempre mia sempre perduta”, e in ogni luogo della sua anima, cerca di aderire ad una realtà che si mostra spesso estranea, distratta e fuggevole. E allora “un treno sull’alba riparte / senza di me, là / forse dov’ero buona / ai tramonti”, oppure “Un’altra infanzia mi perdo / un’altra vena s’asciuga. […] Vivrò come i saggi gufi / che chiudono gli occhi alla luce?”; e a proposito della madre“Ora il suo cuore è una foglia / che trema nella mia mano. / Conosco ogni venatura. / Qualunque traccia segreta / ricalca il cuore, la inseguo / senza raggiungerla / per ogni via del dolore”. E ancora“Mentre la spuma raccolta / ci muore nella mano / con l’ultimo sorriso aspettiamo / la cacciata dal paradiso” e “l’amore che porto / è agro come il sole / e cresce come il vento”. Dolce e amaro vanno spesso insieme nella poesia di Luciana Frezza, sono inscindibili, anzi forse l’elemento caratterizzante e la chiave di lettura potrebbe essere la continua scoperta dell’amaro proprio là dove si aspetta il dolce, una ferita che nasce da un bacio: “Sei l’ultimo bacio che duole / come ferita di rovo”. Probabilmente non sempre il dolore e la delusione sono sostenibili, anche se c’è la voglia di resistere alle tempeste dell’esistenza: “Aspetto che il mare arrivi / con la sua lingua arricciata / e distrugga ogni cosa / eccetto me alla finestra” e “Un ciclone celeste / m’investe m’investe / la porta non resiste / ecco lo dico / lo verso e lo chiudo / così esiste e resisto”.
Versi potenti e drammatici, ma mai spinti verso una facile commozione, mai volti a toccare le facili corde delle lacrime. Una visione lucida e talvolta visionaria che sa osservare con un certo distanziamento il suo stesso percorso esistenziale, come lei stessa dice, richiamando gli “amari versi di Montale” e una profonda richiesta al sole di insegnarle a tramontare. C’è una certa levità nel raccontare il “male di vivere”, pur nel lacerante dissidio interiore che da una parte spingerebbe verso la distruzione, ma dall’altra verso la resistenza, da una parte cercherebbe la sosta, dall’altra il viaggio, da una parte i necessari legami con persone e luoghi, dall’altra un’inarrestabile sete di libertà, da una parte la tensione verso l’oltre, dall’altra la rinuncia.
Ma, in “Smistamento”, nella silloge “24 pezzi facili”, si avverte un sordo e ormai disincantato dolore:
“Sì. Mi dicevi di scrivere poesie. / Sapevi dove mandarle. Era giusto / che non ti preoccupassi di dove venivano”.
La poesia di Luciana Frezza è ricca e articolata anche per gli aspetti formali, e anche questo andrebbe approfondito: passa dalla tendenza al frammento, in cui ogni parola è densa e ricca, evoca e allude in maniera analogica alle diverse stratificazioni dell’anima, a un ritmo narrativo in cui emerge la storia, la microstoria familiare inserita, spesso, nella grande storia mondiale, fatta anche di fallimenti e di guerre, come la seconda guerra mondiale, il bombardamento di San Lorenzo, la Liberazione e poi la Guerra del Golfo. Piccola storia, storia familiare, e grande storia si intrecciano e ci regalano poesie di più ampio andamento narrativo (“Ritratto di mia madre al Casale”, “Cefalù”, “Ancora Cefalù”, “Le due cugine”, “La casa”) fino a diventare racconto tra i quali diventa esemplare, da questo punto vista, “Siesta di Capodanno”, in “Il disegno e altri racconti”, sezione di “Agenda”. C’è una grande capacità di attraversare tutte le forme espressive, dal frammento lirico ai versi distesi e ampi fino alla prosa lirica: tutto ciò si adatta perfettamente alle coerenti contraddizioni (consentitemi l’ossimoro) di quel mondo sepolto che pulsava nelle profondità della poetessa. In qualsiasi metro e stile, la poesia è stata vita per Luciana Frezza.
Rosalba Gallà
