Attualità

Quell’osservatorio sulla Mùfara che condanna l’ambiente e il turismo di montagna.(di Ferdinando Mazzarella)

Con una norma inserita nel cosiddetto decreto “Omnibus”, il Consiglio dei ministri ha considerato «di rilevante interesse nazionale» tutte le opere volte alla «realizzazione di osservatori astronomici» promossi dall’Agenzia spaziale italiana e dall’Agenzia spaziale europea, autorizzandone la costruzione «anche in deroga» a tutti i vincoli ambientali, paesaggistici e urbanistici. La norma è di dubbia costituzionalità, il decreto legge dovrà essere convertito in legge, ma intanto il messaggio è chiaro: i vincoli ambientali e paesaggistici non contano; esistono, ma li “neutralizziamo” tutte le volte che vogliamo. Un messaggio ancor più devastante in un momento in cui gli effetti catastrofici del surriscaldamento climatico ci ricordano da Nord a Sud l’obbligo morale (e giuridico) di proteggere ogni centimetro di territorio.


La norma è fatta ad hoc per la Sicilia, perché spiana la strada alla costruzione del “Flyeye”, il nuovo telescopio che la Regione siciliana e l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) vorrebbero collocare sulla cima del monte Mùfara, nel Parco delle Madonie, contro il quale si sono schierate compatte tutte le associazioni ambientaliste. «L’ESA» – ha dichiarato la deputata di Fratelli d’Italia Carolina Varchi – avrebbe «individuato quella zona per le straordinarie condizioni del cielo che consentono osservazioni di altissima qualità». «Straordinarie», appunto. Semplicemente perché si tratta di un’area incontaminata e sostanzialmente vergine. Come ce ne sono altre nei parchi regionali e nazionali italiani, con l’unica differenza che in quei casi gli enti locali si guardano bene dal promuoverne la cementificazione.
Il monte Mùfara in particolare fa parte di un complesso di vette, dominato da Pizzo Carbonara, che compongono il nucleo più alto e suggestivo delle Madonie. È un santuario geologico, naturalistico e faunistico, inserito nella zona A del Parco, soggetta a vincolo d’inedificabilità assoluta. La vetta si raggiunge attraverso una piccola strada sterrata che s’inerpica all’interno di una faggeta secolare. Il bosco si va via via diradando, aprendo squarci panoramici di rara bellezza. La parte sommitale, a 1865 metri d’altezza, è una dorsale dolomitica accarezzata da una dolina e punteggiata dagli incredibili faggi a cespuglio, una specie protetta, che drena e fertilizza il terreno, sfruttando le foglie per trattenere l’umidità.
Il progetto della Regione prevede la costruzione di un edificio alto quasi quindici metri su una superficie di 800 m2, con un volume di quasi 4.000 m3, un piazzale di oltre 350 m2, una pista di collegamento carrabile da valle a monte e dalla vetta al telescopio. Ci saranno condotte di espulsione di aria calda, aule didattiche e sale conferenze, veicoli, rumori, inquinamento acustico, atmosferico e luminoso.


Bastano queste poche informazioni per capire che il progetto del telescopio implica una scelta politica tutt’altro che neutrale, non solo in termini ambientali e paesaggistici, ma anche in termini economici. Un’opera di quest’impatto cancella infatti definitivamente ogni chance d’intercettare il turismo di montagna, che rappresenta la vera unica occasione di rilancio per le Madonie. In montagna si sale per ritrovare se stessi, non per incontrare veicoli e gruppi organizzati; per contemplare «una bellezza di linee» (Bonatti), una «sorta di armonia definitiva» (Mallory), non per aggirare l’ennesimo blocco di cemento.
La Regione può continuare a insistere in questo progetto. Oppure comprendere finalmente che le Madonie sono una risorsa straordinaria, da valorizzare non per quello che hanno, ma per quello che sono. Può finalmente abbracciare una visione alternativa, che faccia crescere l’economia del Parco senza rinunciare alla sua identità, promuovendo gli sport di montagna, come il trekking, il ciclismo, l’arrampicata, l’equitazione, e gli sport invernali, come lo sci da fondo e il trekking su ciaspole. C’è molto da fare (e altrettanto da non fare) per colmare il gap che separa il Parco delle Madonie dagli altri parchi del circuito internazionale. Ma si tratta di fare cose sorprendentemente semplici ed economiche, come tracciare i sentieri, rinnovare la segnaletica, affidare i rifugi di montagna a cooperative di giovani, utilizzare i vecchi casolari come punti di ristoro per gli escursionisti, finanziare il recupero dei centri storici, promuovere i prodotti caseari, recuperare gli impianti sportivi, sostenere le sagre e le iniziative culturali. E ovviamente accogliere prestigiosi enti di ricerca come l’ESA, magari negli splendidi palazzi dei paesi madoniti, che rischiano di sgretolarsi una pietra dopo l’altra, vittime di un processo di spopolamento che non sarà certo la cementificazione del bosco ad arrestare.

Ferdinando Mazzarella

redazione

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