Società

Don Franco Mogavero. Quel profumo di gelsomino

Mi è successo. Ho invitato qualche cittadino del cielo a lasciare la sua festosa assemblea degli angeli e dei santi, per raggiungere, quel pezzo di popolo di Dio in terra che celebra l’Eucarestia. I miei invitati favoriti sono quanti, nella vita di quaggiù, hanno vissuto l’esperienza dell’abbandono, della solitudine, dello scarto e della “sanguinosa” lapidazione giudicante. A costoro mi piace aggiungere quelli che in questa vita sono stati simili agli angeli, ma con un’ala soltanto. Quelli che non sono riusciti a far volare i loro sogni, i loro progetti, gli amori del cuore. Perché una grande e invisibile forbice, tenuta in pugno dal male, ne ha spezzato l’ala. Sono tutti loro, quegli invitati speciali e “invisibili”, che occupano subito i posti in prima fila. Qualcuno addirittura mi sta a fianco, ai bordi dell’altare.

Lo ha fatto Domenico. L’ho invitato a raggiungermi l’altro ieri per la festa del suo onomastico. L’ho conosciuto da bambino, insieme a tantissimi altri bambini e ragazzi del mio paese. Da tutti era chiamato con profondo rispetto “u parrinu”. Di lui si diceva che fosse stato un presbitero appartenente alla grande famiglia dei salesiani, e che avesse lasciato il ministero. Si raccontava che la mamma e la sorella ne morirono quasi di crepacuore. E che, addirittura, per qualche tempo lo avessero “custodito” tra le mura di casa, facendolo uscire di rado. Lo ricordo come una persona silenziosa, delicata. Vestiva sempre di grigio, tutto di grigio. Dalle ciabatte a quella scialletta che in inverno gli copriva le spalle. Quel grigio uguale uguale a quello in uso nelle figlie e nei figli di don Bosco. Forse a sigillo di una scelta mai cancellata dalle corde della sua anima. Ma che, nei giorni della sua vita in terra, aveva perso un’ala, quella destra. “U parrinu”, con sola ala sinistra cercava di volare ugualmente. Ci riusciva magnificamente con noi bambini.

La sua modesta casa, quasi ogni pomeriggio, si trasformava in un piccolo oratorio. Oggi diremmo in una ludoteca, a costo zero, le cui porte erano sempre aperte. Capitava che si andava a gruppetti, alternandoci con degli orari. Giocava con noi. C’era il gioco dell’oca, la tombola, la dama, gli scacchi, le carte. C’era il rispetto delle regole. C’erano i premi: caramelle, confetti, matite, gomme e quaderni. C’era il suo sorriso.

’era il suo sguardo paziente. Spesso il suo silenzio. Apprese e rispettate le regole dei giochi, a volte ci guardava a distanza. Lui tornava al suo “lavoro”. Era abilissimo nel riparare orologi, sveglie, ferri da stiro, asciugacapelli. Così si guadagnava il pane. Con la moneta della semplicità. E con il rossore in viso quando doveva chiedere il compenso. Questi erano gli unici momenti in cui si relazionava con gli adulti e il loro mondo. Con garbo e gentilezza. Col saluto dato a tutti. Per il resto c’erano solo i bambini e i ragazzi, che davano luce alle “grigie” ore di quel tempo vissuto nelle stagioni della solitudine. Ogni giorno Domenico lasciava tutto e tutti per partecipare all’Eucarestia. Lo ha fatto fino agli ultimi giorni della sua vita, quella con un’ala soltanto. Quella che lo ha fatto camminare, trascinando i piedi per terra. In chiesa non occupava mai le prime file e neanche la navata centrale. Si appartava nell’ultima o penultima fila, lato cappella Santissimo Sacramento. C’era un dettaglio bello, anzi “profumato”, della sua fede. Nel balcone di casa aveva una sola pianta. Quella di gelsomino. Nei giorni della fioritura ne raccoglieva i fiori, li avvolgeva in un fazzolettino di carta. Li sistemava ai piedi del tabernacolo. La sua piccola e candida composizione profumata per il Signore. A circa trent’anni dalla sua morte, nel balcone della sua casa chiusa e abbandonata, possibilmente sarà rimasto solo il vaso di quella pianta. Ma l’odore di quel gelsomino è come se l’avessi sentito, in quell’Eucarestia alla quale lo avevo invitato a partecipare.

Vorrei che con questo semplice racconto, noi tutti chiamati a essere educatori, ne sentissimo il profumo. A volte ci convinciamo che siamo i migliori “maestri”, secondo le sole prospettive edonistiche, quando sappiamo tutelare i nostri allievi da ogni possibile sconfitta, sempre e dovunque. Lo facciamo con tenacia, con tutte le forme di paternalismo “spazzaneve”, che ne impediscano dolorose cadute o inaspettate scivolate. Dimenticandoci che, si è maestri di vita e di sapienza, quando, anche con un’ala soltanto, abbiamo educato i discenti a rialzarsi. Questa è l’essenza del profumo del gelsomino di Domenico, come educatore. Quel profumo che non sappiamo più riconoscere nel vivere quotidiano.

Don Franco Mogavero
Parroco
Responsabile Servizio Pastorale Comunicazioni Sociali

redazione

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