Quando si tratta della “A Sulità” a Gratteri, il pensiero non può non andare al cav. I. Scelsi, il quale fu proprio lui a introdurre questo termine (v. Gratteri, nuova edizione, p. 94) con riferimento alla processione del Venerdì Santo, mutuando il termine da tradizione estera, come alterazione nel nostro idioma dello spagnolo “Soledad”. Traduzione immediata – secondo lui – perché “da Soledad a Sulità il passo è breve”.

L’origine spagnola del nome dato alla processione sarebbe dovuta al fatto che «nel 1612, gli Spagnoli, che allora dominavano in Sicilia, introdussero l’usanza di fare, la sera del Venerdì Santo, la processione come si svolgeva a Siviglia e che loro chiamavano appunto “Soledad” dal tipico procedere dei confrati salmodianti, in fila indiana, anziché disposti su due file come nelle altre processioni».

Tutto vero, salvo la ragione del nome, che secondo nostre informazioni andrebbe riferito alla Vergine Madre, rimasta sola dopo la morte del Figlio, che noi chiamiamo la Addolorata.

Gli Spagnoli nel denominare così la processione intendevano rimarcare proprio lo status della Vergine nell’economia della salvezza dopo la morte del Figlio, In uno stato di solitudine, ancor più compartecipe, col suo dolore aggravato per l’appunto da tale stato, dell’atto di amore consumato sulla Croce. Tanto che lo stesso Gesù prima di morire l’aveva raccomandata al discepolo prediletto, Giovanni, pure lui ai piedi della Croce.

Una solitudine, quella di Maria, rimarcata anche nella nostra processione col collocare la statua dell’Addolorata proprio alla fine del corteo e non dietro l’urna, dove «si collocano il clero, il Sindaco con il consiglio comunale e la banda».

L’equivoco sul nome non avrebbe importanza se – ma questo speriamo non sia il caso nostro – se non si tendesse come di fatto si tende – in queste manifestazioni della Passione e morte del Redentore – come si tende a valorizzare il lato folcloristico. Quale sarebbe anche il caso della esposizione turistica di quei segni che tanto facevano soffrire il nostro Padre Sebastiano da Gratteri.  «Il quale sentì proprio con tutta la veracità e la forza di Francesco l’amore per Cristo flagellato e crocifisso, con la drammaticità di Jacopone la compassione per la Vergine Addolorata»

Del che ci dona testimonianza inoppugnabile Frate Benedetto Passafiume nel suo De origine ecclesiae cephaleditanae, dove leggiamo: «Soprattutto si struggeva d’amore per la passione di Cristo Signore, così che solendo celebrare ogni venerdì la Messa dedicata alla passione del Signore mai riuscì a portarla a termine senza un’abbondante effusione di  lacrime. Lo stesso Redentore una volta volle corrispondere al suo servo con un mirabile segno: quindi nel momento della celebrazione in cui egli invocava l’Agnus Dei, nella specie del pane consacrato il Salvatore si degnò di mostrarsi visibile, col capo coronato di spine, le mani legate e trascinando al collo una orrenda catena di ferro, in quel modo esatto in cui veniva mostrato da pilato ai Giudei che gridavano Crucifige».

Il Passafiume scrive anche della devozione di frate Sebastiano alla Madonna, dalla quale avrebbe ricevuto il conforto di varie apparizioni in momenti difficili, come quando «essendo una volta gravemente infermo e tormentato dall’arsura della febbre …, gli si accostò visibilmente la Madre di Dio in persona recando un’anfora di acqua dalle fonti del Paradiso, bevuta la quale, egli fu liberato dalla febbre».

A prescindere dal credere o meno ai miracoli citati dal Passafiume, che evidentemente vanno letti nell’ottica del genere letterario della agiografia, mi pare che questi dovrebbero essere in primo piano i riferimenti privilegiati della tradizionale pietà gratterese sulla Passione di Cristo, resa concretamente visibile nel culto delle Sante Spine, non secondario a quello dell’Apostolo Giacomo.

Non mi dilungo in merito, perché il mio potrebbe sembrare un rimprovero a coloro che si siano dati da fare perché la tradizione gratterese fosse modello di pietà popolare per i prossimi, i vicini e i lontani di ogni dove. Mentre si tratta soltanto di un richiamo nostalgico di un sopravvissuto al tempo delle troccole al posto delle campane.

GIUSEPPE TERREGINO