Un incrociarsi di lingue; un’ibridazione di culture; una contaminazione di dati; un reticolo di sentimenti e sensazioni che corre lento, oggi come ieri, su quella storica, lunghissima strada che ha nome “Catumerèa”, a Martano, nel mitico Salento, lembo di terra allo sbando, tra vicoli, scalinate, basolati, corti e masserie, oggi più che mai fieri custodi del mondo greco; che corre lento, oggi più che ieri, per le strade di Madrid, tra calli, angoli e slarghi, muti testimoni dei Lorca, dei Goya, dei cantanti di flamenco.


Microcosmi in cui rifugiarsi ancora.Questa è “Catumerèa”, la raffinata silloge di poesie di Leo Luceri.
Fonemi e lessemi che fluttuano, emigrano, ritornano, s’inerpicano e si sovrappongono, si aggrovigliano lungo il percorso dell’antica via Catumerèa di Martano, con tutta quella forza semantica, di greca derivazione, che ritroviamo nella poesia di attacco del libellum, “A Madrid con Vittorio Bodini”. La riscopriamo a “Cuatro Caminos”, il notissimo quartiere – stazione della metropolitana di Madrid. Un incipit carico di significati e significanti dove poesia e dramma si fondono e si confondono in una sinfonia di linguaggi e di lacerazioni dell’anima. Una poesia che diventa subito messaggio sociale e corale riportandoci a poeti lontani ma vicini come Pablo Neruda e Jorge Luis Borges.
Ma che, innanzitutto, si coniuga e si immerge nel mondo classico in una metastorica fusione di linguaggi.
“Le vite parallele” di Plutarco riemergono e tornano a bussare alla porta della nostra mente insistenti, ammiccanti, scrutatrici, con tutti quei loro sensi sottesi di filosofica derivazione.
La poesia di Leo Luceri è tutta una metafora, un altrove ambito e ricercato, un ipogeo di significati e significanti che riemerge ad ogni parola, una “storia inventata fintamente conosciuta” dove “resta il tuo poeta quello che porti sempre con te”
“Tra nostalgie prese in prestito da futuri altrui”, con echi lontani ed echi vicini, da Pindaro a Catullo, da Cardarelli a Montale in una veste grafica composta ed elegante, degna di ospitare la Poesia: la Musicaos Editore.


Catumerèa, che dà il titolo al libro, ci riporta al salmodiare lento di monaci glottologi con “foresti dittonghi”, alla tradizione povero-drammatico-poetica dei limoni di pane (limoni dalla spessa polpa bianca che, nei periodi di grande povertà, si mangiavano al posto del pane).
La parola, giocata e vibrata, liberata, diventa un’assimilazione di dati: di sapori vissuti intensamente, prima di tutto con il gusto e, subito dopo, o forse al tempo stesso, con tutti gli altri sensi. L’essere leccese è come inerpicarsi tra i lecceti; l’essere salentino è come diventare “ingordi di salenti”. Una cifra linguistica che attinge a codici vari e variegati, impensati.
“E’ finzione. È solo apparenza. Il nostro pregio barocco”
Immergersi nella natura arsa assaporandone la profonda linfa; spaziare fra i ruderi di un mondo che fu per sentirne le vestigia. È qua che torna a noi il dantesco Pier della Vigna nel suo essere uomo-albero; è qua che ritroviamo il vate cieco che brancola tra quel che rimane della mitica Ilio facendo un “bouquet dei giorni non trascorsi”, in una “zona franca provvisoria”, tra un viola di ulive greche e una maiolica di Guadalupe, di fronte a un bicchiere di vino di Samos “sotto la pergola d’uva sultana”, navigando su una “barca di foglie perse” che tanto ricorda il grande poeta romeno Mihai Eminescu.
E che il vate cieco si chiamasse Omero o che fosse uno dei tanti aedi che si attardarono e si stanziarono, alla fine, nella penisola salentina, poco importa ai fini di un discorso che ha in gran valore la Poiesis.
Nei versi di Leo Luceri c’è un intimo percorso che ti porta da là a qua, da Paesi lontani alla tua Terra, dal mondo classico all’Oggi su una geografia di linguaggi e di passi che percorre “tratturi antichi” (per rubare una voce dannunziana), tra mondi lontani come quello delle Galàpagos e momenti di oggi dove anch’io “pettino il Tempo”. Scomposti messaggi serpeggiano furtivi, con richiami diretti a Bodini, indiretti a Gòngora, a Carmelo Bene, a Eugenio Barba e a Jerzy Grotowski. Forme di semantiche metempsicosi, ritrovate in lingue diverse ma segnatamente nel griko, attraverso il griko, con il griko, riemergono inattese: tornare alle origini per rivivere le ibridazioni dei linguaggi assimilati e assaporati da Leo Luceri durante i suoi percorsi professionali all’estero, in Paesi lontani ma sempre vicini nel culto delle tradizioni, nel dramma del vissuto e del conosciuto, nell’anelito del superamento delle costrizioni, verso la costante ricerca del Bello. Un plurilinguismo verso cui l’ha catapultato quello stesso percorso, di studio prima, di lavoro dopo. Un’attitudine che affonda le sue origini nel Salento e che il Poeta aveva riposto nella sua valigia di Migrante.
Il nomadismo poetico di Leo Luceri.


Ho conosciuto Leo a Bratislava, qualche anno fa, nella mia veste di Direttore del locale Istituto Italiano di Cultura e Addetto Culturale dell’Ambasciata d’Italia. Lui, Lettore ufficiale di Letteratura Italiana presso l’Università Komenského di Bratislava, personalità culturale di spicco, spirito poliedrico. E’ stata una simbiosi di linguaggi, di intese spesso sottese, di lunghi percorsi attraverso strade storiche come la Catumerèa di Martano o la Venturska di Bratislava, attraverso il grande messaggio della veicolazione delle lingue e delle culture che avvicina i Popoli e che permette la trasmigrazione dell’anima; attraverso i dialetti, che spesso non sono soltanto un gergo ma delle vere e proprie lingue e che costituiscono la naturale liaison di mondi che sono penetrati in noi attraverso la parola, il canto, gli odori, gli umori, gli Amori creando un ideale ponte di dialogo tra il Salento e il meridione d’Italia (attraverso la comune matrice greca) e non solo; tra il Salento e il mondo di ispanica cultura (attraverso il retaggio borbonico) e non solo; ma, soprattutto, tra noi e gli altri in una felice sintesi di prodotti diversi.
I dialetti sono veicolo di valori e di cultura. Sono umiltà e grandezza. De André ce lo ha insegnato. Leo Luceri, in modo discreto ma forte ce lo ha fatto assaporare.

Teresa Triscari