“L’ultimo ululato: L’ultimo urlo. Che risuonò/Proveniva dal cuore di lupo/Per sempre l’eco/Nelle orecchie del suo branco risuonò/Per sempre a ricordare/Nei loro cuori/A causa di un cacciatore senza cuore/Quel giorno imbracciò il fucile/E la sua vittima fu/Questo lupo/Il suo branco/canta ogni giorno/L’uomo portò via il suo corpo/Il branco ulula/Come non mai/Di dolore/Nel dolore/Dovranno per sempre/Ricordare il lupo/Che cadde/In un fatidico giorno d’inverno.

Traduzione e adattamento di Antonello Di Carlo

Di solito attendo le festività e le loro vigilie per riposarmi e, come spesso accade, tale mia aspirazione non trova mai realizzazione concreta. Mi è già successo tante altre volte in passato e, “per magia o per distrazione”, anche ieri sera (visto che a Reggio Emilia, città in cui vivo, era la vigilia dei festeggiamenti di San Prospero), dopo avere aperto l’ultimo libro di Paolo Di Mizio e, soprattutto, dopo essermi ripromesso che avrei “curiosato” solo un po’, dando giusto una sbirciatina, ecco che ancora una volta non sono riuscito a tener fede ai miei sani propositi… Ecco che la lettura di “Teneri lupi” ha piacevolmente sostituito l’anelato e tanto atteso bisogno di trovare crogiolo sulla mia comoda poltrona e di far zapping con il telecomando alla ricerca di uno di quei tanti films che ho già visto e rivisto cento volte. Ma adesso permettetemi di raccontarvi il libro in oggetto, senza spoilerarlo e senza soffermarmi sul suo titolo che, con l’illusione del navigato ed esperto lettore, ritengo essere un elegante e potentissimo ossimoro che impreziosisce la ricercata semantica delle parole scelte.

Così mi sono  cimentato nella lettura del manoscritto. Non mi occorre molto tempo per “degustarmi” l’arcinota eleganza linguista e l’originalità narrativa dello stesso – già il nome dell’autore/poeta è una garanzia a tal riguardo- ma ciò che arpiona la mia attenzione e, soprattutto, la mia curiosità è legata al fatto che quest’opera (ritengo di non far dispetto a nessuno nel definirla tale) è un esperimento suggestivo senza precedenti o, per meglio intendere, un “esempio letterario” che ammalia per contenuti, scorrevolezza, avvicendamenti, attraverso cui si estrinseca un armonioso gioco tra versi, prosa, citazioni e note, che rendono questa lettura unica nel suo genere. Mentre, come un navigante, vengo conquistato dai dolci tocchi del mare che sto solcando sul mio “atipico acazio”, nasce subitanea e spontaneamente la prima domanda: “Che cos’è “Teneri lupi”? È un diario? No, o per meglio dire, non solo! Sarebbe ardito collocarlo in questo genere. Allora è un prosimetro? Forse, ma a differenza di quest’ultimo, è impercettibile il passaggio tra la prosa e i versi, infatti sembra quasi impalpabile, ovattato, a tal punto da apparire più organico e meno “scompartimentato” del prosimetro stesso. Tornando alla struttura aggiungo che, di certo, non è un romanzo, anche se sono presenti i caratteri tipici dello stesso. Somiglia molto al saggio ma, a differenza di quest’ultimo, oltre all’obiettività e alla impersonalità tipiche della saggistica, le pagine si articolano attorno all’Io – parlo di quello umano, professionale e autoriale – e alla soggettività di esperienze vissute e “gustate” a livello midollare. Pertanto, non riuscendo o, forse, non volendo stereotipare a tutti i costi “Teneri lupi”, mi sovviene il verso 37 del III canto del Purgatorio di Dante Alighieri, che invita gli esseri umani a gioire di quel che è dato, della semplice constatazione dei fatti, del contentarsi al “quia”, anziché andare alla ricerca della loro essenza e di presunte cause, servendosi soltanto delle forze, di per sé, insufficienti della ragione. A proposito, con una morale che non sfugge all’occhio attento del lettore che non può non apprezzare e condividere il pensiero di Paolo Di Mizio, nulla di quanto scritto ha a che vedere con il freddo raziocinio filosofico-speculativo, al contrario, esulando dallo stesso, è possibile percepire, come leggeri e gentili sussurri, le emozionanti palpitazioni dell’autore le quali, partendo dal suo quotidiano, dal suo vissuto, dal suo attaccamento verso la bella terra d’Abruzzo, si danno il testimone, in questa “staffetta narrativa” corsa da un solo velocista – l’autore appunto -, con le esperienze professionali più avvincenti, gli stati d’animo più profondi, i distacchi più dolorosi e gli amori vissuti e persi.

Ma è l’amore la chiave di volta di questa lettura? No, ma di certo è uno dei suoi cardini principali. Infatti siamo di fronte a una narrazione e a una poetica che ci consentono di riassaporare canoni vetusti e forse ormai scomparsi, ai quali l’essere umano, nonostante tutto, è rimasto ontologicamente legato. Ed è così che tra frasi, citazioni e versi risorge “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, quello che manca nella nostra quotidianità violentata, brutalizzata dallo spettro della guerra che imperversa, dall’odio che alimenta gli animi e dall’egoismo che seduce chi, al contrario, dovrebbe essere servitore dell’altruismo. È un’esperienza rara e unicamente bella assistere, grazie all’uso sempre sapiente e appropriato di un “inchiostro” che personalmente invidio, al ridestarsi dell’amore inteso come panacea di tutti i mali di un pianeta in cui tutti sembriamo esserci rassegnati a convivere  con l’ormai consolidato paradosso che è più semplice e verosimile trovare teneri lupi che incappare in teneri umani.  

Antonello Di Carlo