Si tratta della scelta accademica del corso di matematica o di materie affini per quella “sindrome che Federigo Enriquesdefiniva una “infezione filosofica liceale”. Un tale accostamento ( tra matematica e filosofia) potrebbe sembrare oggi, quando lo scientismo tecnicistico tende a privilegiare l’informazione scientifica a scapito della formazione umanistica, in vista di un progresso tecnologico volto alla soluzione di ogni problema dell’uomo, un non senso anacronistico, oppure – per chi ritiene ancora valida la formazione nel senso classico del termine – una forzatura dettata dal complesso di inferiorità di un esponente di quella che viene considerata una provincia secondaria del sapere.
Ma non è così. Anzi non lo è stato certamente mai, se un docente di filosofia di un’istituzione religiosa ben lontana dalla attività di ricerca scientifica nel senso moderno, malgrado la sua dichiarata incompetenza in materia, ribadiva, nella seconda metà del XVIII secolo la impossibilità di tagliare dal suo insegnamento un necessario compendio di geometria (equivalente all’attuale programma del liceo classico), essendo “universalmente condivisa dai filosofi l’opinione che la maggior parte della fisica (nel senso aristotelico) senza una conoscenza della geometria, o quanto meno dei suoi principi, rimarrebbe sepolta nel capo più oscuro delle tenebre”(Joachim M. ab Amastra, De principiis geometriae…p.11). A sostegno del quale assunto viene richiamata l’importanza attribuita alla geometria nella tradizione filosofica, dall’antichità classica alla più recente (al suo tempo) presa di posizione dell’Università di Parigi (celeberrima Universitas Parisiensis in statutis reformata – 1598), che impone ai lettori di filosofia l’obbligo della lettura preliminare ai loro discepoli di alcuni libri degli Elementi di Euclide.
Né possiamo dire che si tratti di un punto di vista superato, dato che un eminente matematico del XX secolo, nel ribadire l’essenza della matematica come “cultura generale” e “filosofia, cioè pensiero valido per tutti”, si pone come «uno dei non pochi intellettuali italiani che, in un succedersi di generazioni, hanno seguito all’Università i corsi di studi di matematica per una“infezione filosofica liceale”, come diceva di sé, conversando con gli allievi, uno dei grandi maestri che ho avuto la fortuna di avere nell’Ateneo romano tra il 1934 e il 1938: Federigo Enriques»(L. Lombardo-Radice).
«Questo modo – egli aggiunge – (mio come di tanti altri) di essere matematico corrisponde a una tradizione umanistica della matematica, particolarmente forte e consapevole in Italia» (L.Lombardo-Radice, Ist. di algebra astratta, Feltrinelli, Milano 1965, p. X-XI pref.)
Un orientamento, questo, dal quale non sembra essersi mai distaccato l’insegnamento della materia nel Liceo Mandralisca, ove ci è toccata anche la soverchiante responsabilità di dovere onorare una tradizione di prestigio dell’istituzione scolastica non a prescindere dalla Matematica, ma proprio in relazione (grazie soprattutto al valore delle personalità che ne hanno interpretato in ogni tempo l’insegnamento) al primato di essa come disciplina umanistica. Per nulla secondaria rispetto ad altre definite nel gergo burocratese d’indirizzo e perciò, secondo qualcuno, ipso facto da ritenere più importanti in ordine alla valutazione del profitto degli alunni.
L’anniversario della scomparsa di Dante Alighieri, del quale è ancora in corso la celebrazione, ci ha dato l’occasione di mettere in evidenza questo nostro modo di intendere la presenza della matematica negli studi liceali, benché di indirizzo classico, cogliendo i punti in cui il grande poeta richiama conoscenze matematiche che rappresentano contenuti di pensiero indubitabilmente caratteristici della riflessione epistemologica. Quali sono stati una proprietà del triangolo richiamata nel dialogo col trisavolo Cacciaguidae la proprietà dei triangoli inscritti in una semicirconferenza nel canto in cui si chiarisce da parte di San Tommaso la singolare virtù di Salomone.
Nel primo caso è dato di leggere una proposizione, che riteniamo potersi considerare un’affermazione sulla natura dei postulati come base intuitiva oggettivamente certa della geometria, dato il paragone dell’intuizione del matematico con la visione del contingente nella mente divina da parte dei beati. Rivolto al suo antenato, così, infatti, Dante paragona la visione del proprio avvenire da parte di Cacciaguida: «come veggion le terrene menti/ non capere intriangol due ottusi,/ così vedi le cose contingenti/ anzi che sieno in sé, mirando il punto/ a cui tutti li tempi son presenti»(Paradiso, XVII, v 14-18).
Una proprietà, quella anzidetta,riconducibile al quinto postulato di Euclide nella forma originale, che postula la convergenza di due rette intersecate da una trasversale dalla banda in cui risulta minore di due retti la somma degli angoli coniugati. Che non è difficile far corrispondere all’enunciato dantesco. Il che poi serve a rimarcare la natura dei postulati nella geometria classica. Prima che la critica dei fondamenti, che sarebbe avvenuta a distanza di secoli, avrebbe fatto concepire ipotesi diverse.
Rimanendo nell’ordine d’idee della geometria euclidea, in essa analogamente incontestabile è la proprietà del triangolo inscritto in una semicirconferenza, che non può essere diverso da un triangolo rettangolo. Onde Salomone (v. Paradiso, XIII, v. 101-102) avrebbe chiesto un sapere superiore al top umanamente insuperabile ove avesse domandato di sapere se “del mezzo cerchio far si puote/triangol si che un retto non avesse”. Cosa da lui non richiesta, salvandosi per la sua umiltà anche la singolarità della sua domanda, che era stata quella di essere un re sufficiente.
Anche in questo caso è implicitamente ribadita la natura della matematica, sulla scia del pensiero e della logica aristotelica, come forma di sapere filosoficamente indubitabile, al punto di non potersi porre neppure l’ipotesi di una differente natura di un triangolo inscritto in una semicirconferenza da quella sancita dalla geometria euclidea.
Nella quale geometria sussiste anche una problematica attinente all’aspetto pratico di essa, paragonabile a problemi filosofici di notevole difficoltà, quali, per citarne qualcuno, quelli attinenti alla composizione del continuosceverata in vario modo da Democrito (che esclude, lui il padre dell’atomismo fisico!, un’analoga composizione delle grandezze geometriche) ad Aristotele, a Bonaventura Cavalieri (autore nel ‘600 di una Geometria degli indivisibili accanitamente avversata dagli aristotelici), a Galileo ed altri ancora.
Dante, pure lui, entra nel merito di tale problematica nella conclusione della Divina Commedia col paragonare la difficoltà di sciogliere il rebus della Trinitàdivina con quella del “geometra che tutto s’affigge/ a misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elliindige” (Paradiso, XXXIII, v. 133-135). Con quella, per essere più chiari, insita nel classico problema della quadratura del cerchio. Che Dante non avrebbe potuto risolvere, né indicare per esso una via diversa dalla soluzione geometrica, non essendo neppure al corrente – come ci ha fatto notare il prof. S. Maracchia, accademico e storico della matematica – della metodica archimedea.
Ma questo conta poco nel nostro attuale discorso. Quella che conta è, invece, la scelta del Poeta sulla natura della matematica, che viene vista- alla maniera di Platone – come insieme di forme presenti in una realtà soprasensibile che l’esperienza della realtà materiale, nel caso specifico della quadratura del cerchio, rende in qualche modo inattingibile, come lo stesso Dante sottolinea nel Convivio (Trattato II, cap. XIII, 27) ):«lo cerchio per il suo arco è impossibile a quadrare perfettamente, e però è impossibile a misurare a punto».
Da quello che abbiamo detto, benché sbrigativamente, dovrebbe emergere un dato importante: che la matematica sia una disciplina indiscutibilmente umanistica come la filosofia e con tale spirito deve essere insegnata nei licei. E soprattutto nel liceo classico, perché in esso vengono adeguatamente illustrate le conoscenze provenienti dal mondo detto per l’appunto classico, di cui è specchio fedele – grazie alla fede del sommo poeta nell’unità e univocità della cultura – la Divina Commedia. La quale è certamente “ascesa alla verità unica dell’universo, fisica e metafisica, morale e teologica insieme”(S. Vazzana).
Giuseppe Terregino
vecchia foto facciata liceo Mandralisca