La notizia, diffusa in internet, della lettura pubblica del XXXIII canto del Paradiso dantesco a Gratteri mi ha fatto approvare in cuor mio una iniziativa così lodevole, soprattutto per il valore poetico e spirituale di quel canto, che s’inizia con la più alta lode umana della Vergine Santissima, che solo un poeta quale fu e continua ad essere il nostro Dante poteva degnamente elevare.

Come matematico poi non poteva non farmi piacere la chiusa del canto con l’immagine del geometra impegnato nel tentativo di risoluzione del classico problema della quadratura del cerchio; al quale il Poeta si paragona nel tentativo di rendere palese l’immagine del mistero della incarnazione divina, che egli riesce a cogliere in un lampo istantaneo di luce della Grazia, ma senza che la fantasia riesca a trasferirla all’intelletto.

Come gratterese, però, non mi son sentito  del tutto soddisfatto dal non essere venuto in mente ad alcuno che l’anniversario (settecentesimo) celebrativo di Dante Alighieri potesse essere l’occasione per ricordare il ruolo importante riservato da lui al nostro santo Protettore. Che egli incontra nel Cielo delle Stelle Fisse, dove si assiste al trionfo di Cristo, di Maria e dei beati, nel ruolo, per noi sorprendente, di esaminatore del Poeta su una delle più importanti tematiche della fede cristiana.   

«Mira, mira: eco il barone / per cui laggiù si vicita Galizia». Cosi Beatrice “piena di letizia” indica a Dante il “lume” che si muove verso di loro dalla schiera di anime trionfanti, dalla quale in precedenza era venuto il primo dei vicari di Cristo (San Pietro). Qui Dante è sottoposto a un esame di teologia prima di accedere all’Empireo, alla visione dell’eterna Trinità Divina. E San Giacomo, presentato con l’appellativo di barone, è l’esaminatore titolare della virtù teologale della Speranza.

 Su questo tema egli pone a Dante, assistito da Beatrice, tre domande: cos’è la speranza, come se ne adorna la sua mente, donde gli deriva la conoscenza di tale virtù. Beatrice, intervenendo a favore del suo assistito, dice che la Chiesa militante non ha alcun figliuolo con maggiore speranza dell’interrogato, come i beati possono ben vedere nella mente di Dio. Onde gli è stato concesso di venire dal mondo nella Gerusalemme celeste prima del termine della sua militanza terrena. E quindi lascia a Dante le altre due risposte, che sono certamente alla sua portata.

 La prima è scritta tra le sentenze bibliche diffuse nelle scuole medievali, che il poeta ben conosce: “speranza – egli dice – è un attender certo della gloria futura, che deriva dalla grazia divina e dai meriti acquisiti”. Tale verità gli giunge – egli dice –  da molti luminari, tra cui spicca il salmista (“sommo cantor del sommo duce”), il quale nel salmo IX canta: “sperino in te color che sanno il nome tuo”. Una sapienza, questa, che Dante rivendica a se stesso come a chiunque abbia la sua medesima fede.  

Degli altri testimoni non fa parola, salvo che dell’autore dell’epistola che gli avrebbe istillato la virtù in argomento, che egli, equivocando, identifica proprio con l’esaminatore, mentre si tratterebbe dell’apostolo omonimo, detto il minore.

L’approvazione di San Giacomo non si fa attendere: riscontrabile come è nel tremolare di un “lampo subito e spesso a guisa di baleno”. Che è la premessa di una esternazione verbale, nella quale l’Apostolo manifesta il suo amore, di cui ancora non cessa di ardere, per quella virtù che lo accompagnò in terra fino al martirio. E quindi incalza l’interlocutore con la domanda sul merito della Speranza, ossia su la promessa in essa contenuta. Che è – come subito risponde il pellegrino – ciò di cui danno il segno “le nove e le scritture antiche”; in cui ne danno testimonianza le anime “che Dio s’ha fatte amiche”; ciascuna delle quali – come dice Isaia – avrà nella sua terra due vesti e sua terra sarà proprio la patria celeste. Un segno   meglio specificato, in particolare, da Isaia (LXI 7) e da Giovanni (fratello di Giacomo) nella Apocalisse, “là dove tratta de le bianche stole”, di quella moltitudine di persone «in piedi davanti al trono e al cospetto dell’agnello avvolti in bianche vesti e con palme nelle loro mani (VII 9)».

Di questa posizione importante nel Regno di Dio dei figli di Zebedeo, in risposta alla domanda della loro madre a Gesù di porre ciascuno di essi al proprio fianco nel suo regno, non v’è traccia al di là della Divina Commedia. Del che si può avere conoscenza mediante una lettura di essa puntuale e approfondita.   Solo che bisogna arrivare alla scuola superiore e trovare ancora oggi un docente disposto ad aprire il discorso su questo punto per cogliere il senso della predilezione di Gesù nei confronti di Pietro e dei figli di Zebedeo; i quali, presenti in momenti topici della sua vita terrena, avrebbero avuto il compito di trasmettere con la testimonianza fino al martirio i messaggi più forti della evangelizzazione di Gesù.

A loro era stato detto dal Maestro che il posto al suo fianco nel Regno dei Cieli avrebbero dovuto meritarselo. E Dante dà per scontato che se lo siano meritato. Di loro, infatti, parla, usando il linguaggio proprio del contesto feudale, come di dignitari di prim’ordine (baroni, principi, conti) alla “corte” dello “imperadore”. Un linguaggio sostanzialmente traslato, ma efficace per rimarcare quello che va detto in primis quando si parla di personaggi di tale statura quale fu quella dell’apostolo Giacomo.

Le celebrazioni festive vanno bene pure sul lato mondano, perché nella gioia e nel godimento esteriore ha posto il culto di quella fraternità che è corroborativa nei drammi della vita quotidiana. Purché non si dimentichi del tutto la forza che dà vigore alle sorelle e ai fratelli che, sparsi per il mondo in situazioni anche difficilissime, testimoniano Cristo col sacrificio incruento e cruento della loro vita. La forza che nel discorso dantesco si identifica con la Speranza, quella virtù di cui il nostro Apostolo è ritenuto, per secolare tradizione, il rappresentante più insigne.

La gente comune del nostro paese ha attribuito a San Giacomo anche un ruolo importantissimo nel tribunale in cui si assegna il destino alle anime dei trapassati: come membro autorevole, egli viene invocato perché interceda il perdono per i nostri errori. Nel canto XXV del Paradiso dantesco abbiamo, invece, una più significativa lezione di vita in riferimento alla speranza, ove si dice che essa discende sì dalla grazia divina, ma anche e soprattutto dalla coscienza di una vita vissuta senza risparmio all’insegna dell’amore di Dio e del prossimo, perché – dice Dante – la speranza «è un attender certo/ de la gloria futura, il quale produce/ grazia divina e precedente merito».

GIUSEPPE TERREGINO