Correva l’anno 1981 quando tutte le volte che ne avevo la possibilità, mi precipitavo sulla macchina di mio padre per ascoltare Cuccuruccu, Centro di gravità permanente, Bandiera bianca, nonostante la giovane età ero ammaliato dalla voce, dalla timbrica particolare, dalle musiche e dagli arrangiamenti del Maestro Franco Battiato che, in tutto l’arco della sua vastissima carriera, mi hanno trasportato in viaggi fantastici e hanno stimolato la mia fantasia e la mia creatività.
Aver appreso che oggi all’età di 76 anni, nella sua residenza di Milo (CT), si è spento il suo soffio vitale, mi ha lasciato con un vuoto indescrivibile.
A compiangerlo non sono solo milioni di fans e di colleghi, ma l’intero mondo della cultura, della letteratura, della poesia, dell’arte e non solo per semplice affetto o rispetto, ma perché è venuto meno un genio, anzi, il genio poliedrico della musica italiana che, fin dai suoi primi LP (Fetus e Pollution) ai suoi ultimi successi ha, fatto sognare tre generazioni di estimatori, con la sua musica senza spazio e senza tempo, con cui ha spaziato con grandissima e agile naturalezza, tra generi musicali diversi e, a volte anche distanti tra essi, come il Pop, la musica più colta ed aulica, il genere etnico e, persino, la musica lirica.
Proprio in virtù di questa sua multiforme propensione artistica, risulta difficile collocarlo all’interno di un genere musicale, ecco perché l’unico modo possibile per descrivere il suo lavoro è definire Franco Battiato semplicemente come un immenso artista che, con la sua musica, la sua arte e anche il suo cinema, ha dilettato e deliziato il suo vasto e folto pubblico di fans e di estimatori.
La sua è stata una carriera lunghissima durante la quale ha consegnato ai posteri indimenticabili capolavori come “Sulle corde di Aries, L’Egitto prima delle sabbie, Patriots, La Voce del Padrone, Orizzonti perduti, Fisiognomica, Come un cammello in una grondaia, Caffè della Paix, Torneremo ancora, La cura, Centro di gravità permanente, Voglio vederti danzare, L’era del cinghiale bianco, I treni per Touzer”.
La sua è una discografia infinita ed immortale che racchiude il pensiero di un uomo, di un gran pensatore di questo secolo che, con la sua musica ci ha trasportato tra passato, presente e futuro, che con i suoi arrangiamenti e testi ci ha condotto in “Mondi lontanissimi, Civiltà perdute”, da un continente all’altro, da una dimensione all’altra, mettendo spesso a nudo malcostume e vizi della società contemporanea, come in “Povera patria”, ma lasciando sempre uno spiraglio aperto, seppur piccolo e quasi impercettibile, al cambiamento anelato.
I suoi 30 LP e 50 anni di carriera non sono solo numeri, ma rappresentano un’eredità artistica, culturale e sociale che con difficoltà potrà essere “accettata” e continuata da eredi e legatari del più recente panorama musicale internazionale.
Non me ne voglia nessuno se dico che oggi, quando ho saputo della scomparsa di Franco Battiato, ho avuto la sensazione che intorno a me fosse rimasto un senso di vuoto incolmabile o, per meglio render l’idea, una sorta di “nulla cosmico” di leopardiana memoria.
Infatti i suoi trenta dischi, sono trenta mondi paralleli unici, ascetici ed esoterici nell’accezione più nobile e bella della parola, che poco hanno in comune gli uni con gli altri, infatti, per chi li conosce, ben sa che si trattano di trenta microcosmi, o forse sarebbe meglio dire, di trenta macrocosmi, accomunati solo dal particolare approccio che Franco aveva con la morte.
Egli la vedeva non come fine della vita, ma come continuità della stessa e, per lui, la morte non era qualcosa da temere e da fuggire, ma una nuova estensione dimensionale del ciclo vitale a cui l’uomo deve solo prepararsi ed abituarsi.
Per lui la morte era solo trasformazione (chimico-biologica, filosofica e spirituale) e mi piace pensare adesso Franco “a bordo dei Treni per Touzer in un viaggio no time no space, verso Mondi lontanissimi, per seguire le stelle e trovare finalmente La cura all’umana condizione”.
Così “Arrivederci” Maestro “ciao le nubi sono già più in la”, mi piace ricordarti e darti il mio ultimo saluto con una delle tue cover preferite cantata da Caterina Caselli, canzone da te amata ed interpretata perché sembrava quasi anticipare il suo modo di vedere la morte stessa, del resto:
“…Quando andrò
Devi sorridermi se puoi
Non sarà facile ma sai
Si muore un po’ per poter vivere
Arrivederci amore ciao
Le nubi sono già più in là
Finisce qua
Chi se ne va che male…”
Grazie Maestro d’aver edificato un monumento più duraturo del bronzo.
Antonello Di Carlo