In molti hanno trovato interessante una ricerca della matematica nella Divina Commedia. Una ricerca, questa, non destinata ad andare delusa, perché Dante – come dice l’emerito dantista Steno Vazzana[1] (Cefalù 1923- Roma 2001) – «possedette certamente tutta la cultura del Medioevo sia letteraria che scientifica, sulla quale anzi poté formarsi l’intera struttura della Divina Commedia, che è innanzi tutto ascesa alla verità unica dell’universo, fisica e metafisica, morale e teologica insieme»[2]. Onde l’attualità dello studio approfondito della Commedia come risposta alla «esigenza unitaria della cultura moderna, così preoccupata non solo nei letterati, ma anche negli scienziati, di non lasciare scavalcare l’humanitas da una mostruosa avanzata della tecnica». Nella direzione di quella unità che « sentì e seppe risolvere in sé Dante».

Una esigenza, quella evidenziata da Steno Vazzana, forse non più sentita oggi come egli la pensava allora (1966), più di mezzo secolo fa, ma certamente più stringente adesso, quando la “mostruosa avanzata della tecnica” ha raggiunto il livello di un assoluto dato di fatto irremovibile, perché fattore di benessere; di quel benessere materiale teleologicamente collegato alla filosofia di vita dell’edonismo consumistico. La quale è largamente condivisa, anche tra coloro che ne sono vittime a causa della inevitabile discriminazione che ne discende nella concorrenza per il raggiungimento della felicità agognata. 

L’interesse di Dante per la matematica ha un significativo assaggio nel quarto canto dell’Inferno, tra gli “spiriti magni” del “nobile castello”, dove troviamo “Euclide geomètra” a capo gruppo di scienziati come Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno.

 Ma dove si rende esplicita l’opinione del poeta sul valore di verità della scienza matematica è nel XVII (vv. 13-18) canto del Paradiso, quando per sollecitare il trisavolo Cacciaguida ad annunciagli il suo futuro, gli mostra di sapere che egli sia in grado di vedere gli eventi avvenire “come veggion le terrene menti/ non capere in triangol due ottusi”, ossia con la medesima chiarezza con cui le menti umane colgono la “verità” della non esistenza di un triangolo con due angoli ottusi. Una verità, questa, indiscutibile nel contesto della geometria euclidea, nella quale la somma degli angoli interni di un triangolo equivale a due angoli retti; una verità equivalente addirittura al famoso quinto postulato, sul quale in seguito si sarebbe concentrato il dibattito che ha portato alla nascita, a prescindere da esso e contro di esso, di sistemi razionali ipotetico-deduttivi senza contraddizioni interne, nonché al mutare della natura propria dei postulati. Onde il passaggio dalla geometria tout court alla pluralità delle geometrie, di cui la euclidea resta tuttavia quella conforme alla esperienza della realtà visibile

 Altro punto in cui secondo Dante la mente umana abbia toccato nella geometria l’acme della sua infallibilità è nel canto XIII (vv. 101-102) del Paradiso, quando San Tommaso per spiegargli il senso dell’espressione “non surse il secondo” in riferimento a Salomone, gli fa presente che questi, allorché Iddio gli offrì di esaudire ogni sua domanda, non chiese nulla che andasse al di là del massimo raggiunto dalla sapienza umana in ogni ambito del sapere, ma solo di essere un “re sufficiente”. E, in particolare, non chiese “se del mezzo cerchio far si puote/ triangol si che un retto non avesse”. Ossia se fosse possibile inscrivere in mezza circonferenza un triangolo non rettangolo avente come lato il diametro.  Ipotesi assurda nella geometria euclidea, nella quale la semicirconferenza è il luogo geometrico dei punti da cui il diametro è visto sotto un angolo retto. Il che equivale proprio alla impossibilità di fare del mezzo cerchio un triangolo non rettangolo.

Dove la vocazione matematica (se così possiamo chiamarla) dell’Alighieri tocca il culmine e insieme il limite espressivo è a conclusione del Poema, nel canto XXXIII (vv 133-137), dove il poeta paragona la sua incapacità di descrivere l’immagine attinente al mistero della Incarnazione e quindi della Trinità divina, apparsagli in un fuggevole lampo di intensissima luce, a quella del «geomètra che tutto s’affige/ a misurar lo cerchio, e non ritrova,/ pensando, quel principio ond’elli indige». E questo perché gli veniva meno, per essersi spinta troppo in alto, la capacità della fantasia nel trasmettere all’intelletto l’immagine della visione. Come a dire della impossibilità di una spiegazione intellettuale del mistero colto fugacemente in un particolare stato di grazia.

Si sarebbe trattato, in altri termini, di una sconfitta intellettuale analoga a quella del matematico di fronte al problema della quadratura del cerchio, del quale non si era riusciti a dare la soluzione per via geometrica con l’uso degli strumenti canonici degli Elementi di Euclide (e per questo detti elementari), ossia con l’uso esclusivo di riga e compasso.  Un problema al tempo di Dante ancora aperto. Successivamente è stato chiuso nel senso della non risolubilità  per la via elementare. Ma non in assoluto, anche se nella mentalità corrente resta l’esempio classico della assoluta non risolubilità.

I casi di citazioni matematiche nella Divina Commedia dianzi riportati non dicono – com’era ovvio – nulla sullo spessore della competenza del nostro poeta nelle scienze matematiche. Dicono tuttavia abbastanza su quella unità della cultura che Dante “sentì e seppe risolvere in sé” e della quale oggi sarebbe dannoso ignorare l’esigenza, quando la dicotomia tra cultura letteraria e informazione scientifica tende sempre più all’avvento paventato da Steno Vazzana, di far “scavalcare l’humanitas da una mostruosa avanzata della tecnica”. Rispetto alla quale la matematica ha un ruolo ancillare, privo di quella valenza umanistica che Dante le attribuisce nel ritenere insite in essa forme inattingibili dal pensiero ove “l’alta fantasia” manchi del suo potere immaginifico. Come avviene, per esempio, nei meandri dell’infinito.

GIUSEPPE TERREGINO


1. Steno Vazzana, nato a Cefalù nel 1923, chiuse i suoi giorni a Roma nel 2001, dove si era trasferito come insegnante di Italiano e Latino nei licei per avere maggiori opportunità di ampliare la propria ricerca in quello che possiamo considerare il suo campo preferito, che era per l’appunto quello degli studi danteschi. Nel quale ambito ha lasciato una ricca serie di note, articoli e saggi universalmente apprezzati, fino al volume, uscito postumo, su Dante e la bella scola, Edizioni dell’Ateneo, Roma 2002; il quale risulta essere un capolavoro per la completezza dei richiami alle fonti del mondo classico presenti nel poema dantesco, nonché per l’acume critico con cui ne viene colta l’eco come fonte di ispirazione poetica.   

2. S. Vazzana, Dante nei licei, Il Mamiani 1, 1966, pp. 34-45.