Sull’uso della tecnologia nella didattica ho scritto più volte in passato; affermando che essa fosse imprescindibile ove potesse rendere più efficace la comunicazione del docente. Ad una condizione, però, che questi fosse capace di dominarla senza esserne surrogato in quella sua peculiare creatività in cui si esprime la maturità della funzione docente. Riguardo alla quale, diceva il mio insegnante di Italiano e Latino al Liceo Mandralisca: “non è detto che l’insegnante sia più istruito e colto dell’alunno; ma di una cosa si può essere certi, della sua superiore maturità”. Ovviamente, intendendo con questo termine la sua capacità di cogliere le potenzialità del discente in direzione di un sapere che fosse una conquista personale e non già una eredità acquisita passivamente. Onde la necessità di un rapporto interpersonale il meno possibile distanziato.
Allora il problema della compresenza di docenti e discenti nel luogo deputato all’attività didattica non si poneva come si pone adesso, giacché non era neppure pensabile una didattica a distanza, che adesso è praticata quasi sistematicamente nei corsi universitari più avanzati, con la modalità della videoconferenza, e non può essere rifiutata pregiudizialmente oggi nella scola secondaria, quando ragioni di forza maggiore insuperabili e coartanti la impongano, come male minore, in alternativa a quella ordinaria in presenza. E questo perché esistono all’uopo strumenti usati abbastanza agevolmente, anche dai fanciulli, prima di ogni forma di alfabetizzazione.
Personalmente, però, ritengo che un uso sistematico di siffatta tecnologia nell’insegnamento, oltre alla possibilità di essere mezzo di discriminazione sociale, dato che non tutti i ragazzi sono socialmente sullo stesso piano in ordine alla acquisizione e all’uso degli strumenti ad hoc necessari, per tale via venga negata l’importanza della socializzazione, imprescindibile nella pubertà e nella adolescenza, e reso impossibile l’approfondimento di tematiche che hanno bisogno, per essere capite e interiorizzate, del dialogo personalizzato e in presenza di una classe di allievi cointeressati.
Se questo discorso deve essere correlato alla affliggente pandemia in atto, non possiamo non lodare l’impegno del personale scolastico nel rimediare alla meglio il danno che si è venuto a determinare con la chiusura delle scuole, resa inevitabile dalla mancanza di qualsiasi mezzo per fermare il diffondersi sempre più rapido del contagio. Sono state senza dubbio lodevoli le iniziative di didattica a distanza assunte nelle scuole secondarie, ove capi d’istituto e docenti si sono prodigati senza risparmio di energie per non fare mancare quel minimo di istruzione che consentisse ai discenti di superare senza molto danno le prove d’esame previste dalla Costituzione (art. 33) per l’ammissione ai gradi superiori degli studi.
Un danno, però, ci sarà stato. E non di poco conto. Come ci fu in conseguenza della chiusura delle scuole per quasi un anno dal Dicembre del 1942 a causa dei bombardamenti aerei prima dello sbarco in Sicilia delle truppe alleate. Quando una didattica a distanza non era neppure pensabile. E per di più vennero a mancare i libri di testo e finanche gli strumenti indispensabili per scrivere.
La fortuna, se così possiamo chiamarla, fu che con l’entrata degli americani, nella nostra Isola i bombardamenti ebbero fine e pur nella devastazione lasciata dalla guerra (che sarebbe terminata nel 45) le scuole poterono essere riaperte e funzionare didatticamente al meglio grazie allo spirito di abnegazione del personale scolastico.
Adesso la situazione è migliore sotto ogni aspetto. Ma non tale da poter evitare un danno irreparabile determinato da un eccessivo prolungamento della chiusura delle scuole, col conseguente, ancora, alla didattica a distanza; la quale – come abbiamo già detto – non è possibile che sia un rimedio se non per un tempo limitato e quando sia gestita da personale scolastico idoneo e in relazione ad una utenza generalmente fornita degli strumenti atti ad assicurare la pari opportunità nell’apprendimento. E di conseguenza occorre intervenire affinché l’impiego delle più avanzate forme di tecnologia, dai videoregistratori ai computer, ai tablet, agli smartphone trovino nella scuola il posto che la loro efficacia didattica merita: accanto al libro di testo, in funzione integrativa o alternativa, essi debbono costituire un indispensabile corredo didattico.
Della conoscenza del loro funzionamento deve arricchirsi la professionalità dell’insegnante moderno, il quale non può arroccarsi su posizioni di misoneismo, ma deve aprirsi a tutto quanto – strumenti tecnici compresi – possa soccorrerlo nell’adempimento dei suoi compiti. Tenendo tuttavia conto del fatto che l’uso di tali mezzi può in qualche mi­sura ridimensionare la sua presenza ove, per imperizia o sudditanza, egli si lasci soverchiare da essi.
E’ d’uopo, quindi, che, contestualmente all’avanzare della tecnologia, si modifichi la figura professionale del docente in modo tale che non risultino mai mortificate quelle facoltà umane che nessuno strumento può surrogare e che però rappresentano l’imprescindibile supporto dell’insegnamento. Va, in altri termini, promosso quell’aggiornamento volto a salvaguardare nella scuola la preminenza dell’uomo su ogni metodologia e su ogni tipo di strumento didattico, soprattutto dando luogo alla affermazione di ciò che dell’uomo è prerogativa peculiare e insostituibile, quale è per l’ap­punto la sua creatività.
Le recenti manifestazioni dei giovani studenti a favore della “didattica in presenza” pongono con urgenza il problema di non prolungare più di tanto la chiusura delle scuole. Questo, però, impone l’adozione di tutte le misure di sicurezza necessarie perché la pandemia non abbia focolai negli edifici scolastici. Che devono perciò essere capienti in funzione del distanziamento. Mentre va risolto contemporaneamente il problema del trasferimento da casa a scuola, e viceversa.
Si tratta di problemi assai difficili e non risolubili nell’arco di una o due stagioni. Ma se non si comincia a pianificare razionalmente la soluzione, la pandemia non avrà termine se non quando avrà inflitto il suo più alto costo in termini di vite umane. E forse non prima di aver lasciato il posto ad una non improbabile ecatombe pandemica successiva ad essa.

SCIENTISMO DIDATTICO E ILLUMINISMO PEDAGOGICO
Lo stato di necessità attuale, che ha reso necessaria la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, ha fatto alzare l’ingegno verso una surroga della tradizionale prassi didattica mediante il ricorso alla tecnologia digitale. Una surroga certamente lodevole ove sia possibile (purtroppo non dovunque) porla in essere con efficacia ed efficienza. Ma analogamente da evitare in via ordinaria, perché equivarrebbe a una robotizzazione della didattica a scapito della formazione intesa come capacità di un sapere consapevolmente e criticamente acquisito.
In proposito ci sovviene di un articolo di oltre trent’anni addietro, dal titolo Professionalità ed estro nell’insegnamento (Ricerche Didattiche, N. 309-310/1987), che ci pare opportuno richiamare alla memoria stante la maggiore attualità del suo messaggio nella situazione presente. Quando sembra quasi giunto il tempo della “didattica a distanza” come prassi risolutiva dei problemi della scuola, sia riguardo all’istruzione, intesa come comunicazione del sapere già acquisito e consolidato in ogni settore della conoscenza, sia per quanto attiene al lato formativo della personalità, soprattutto in considerazione della prevalenza del tecnicismo digitale in ogni ambito della vita sociale.
Ma vediamo un po’ quanto si era arretrati rispetto ad oggi alla data dell’articolo sopra menzionato, che si incentrava sul termine “professionalità” intesa come qualità primaria del docente di ogni livello.
«Professionalità è oggi un termine frequentemente usato. Ad esso si ricorre per esprimere l’esigenza di servizi sociali efficienti e la legittima richiesta di garanzia di produttività per quei compiti che non possono essere affidati, senza danno e spreco, all’improvvisazione.
Spesso neppure la più notevole diligenza è da sola sufficiente a garantire la congruità di un servizio alle sue specifiche finalità, ma occorrono competenza specialistica, sapere scientificamente fondato ed esperienza maturata in un lungo tirocinio: un insieme di qualifiche che costituiscono appunto la professionalità. A tale regola non sfugge l’attività didattica, la quale, in un tempo in cui le scienze umane han­no raggiunto traguardi di alta consapevolezza, non può essere più af­fidata del tutto all’intuito e all’esperienza personale, ma deve fondarsi su canoni obiettivi e collaudati. La sua pianificazione è oggi una ne­cessità, se si vuole accrescerne l’efficacia e se si vogliono raggiungere con sicurezza gli obiettivi di fondo cui è destinato il suo svolgersi.
In essa c’è però qualcosa che non può estinguersi o sacrificarsi all’efficientismo e alla produttività sotto l’aspetto meramente quantitativo: è l’estro, quel « quid » che non può mai venire meno, neppure in omaggio al più illuminato scientismo didattico. E ciò per la specialità della funzione docente, che è in primo luogo, e tale deve essere in ogni caso, una funzione creativa e non, come talvolta si riduce per l’in­sipienza degli operatori e per l’inadeguatezza delle strutture, una mec­canica e impersonale ripetizione di contenuti programmatici.
Per l’insegnante l’inizio dell’anno scolastico è qualcosa di più che il periodico ricominciare di un’attività ciclica, perfettamente determinata dall’inesorabile trascorrere del tempo, con carattere di necessità immanente, alla stregua di un qualsiasi ciclo naturale. È qualcosa di più (o, forse, sarebbe meglio dire di diverso), perché non si tratta di ripercorrere le tappe di un processo già compiuto, ma di portare avanti un processo spirituale in continua evoluzione, senza soluzione di continuità e per sua natura irripetibile.
Guai se l’educazione si riducesse all’inquadramento della mente dell’educando in schemi precostituiti e fissi: equivarrebbe a una imposizione dommatica della verità, la quale, per la sua stessa essenza, è contraria a ogni tentativo di cristallizzazione in schemi e formule e si pone come punto limite di un infinito processo dialettico, che affonda le radici nel dubbio e nella contestazione. Il rapporto tra docente e discente va, invece, visto e vissuto come rapporto dialettico tra l’essere dell’insegnante e il non essere dell’alunno, che si risolve in una sintesi superiore, realizzata dal comune amore per la verità.
Se pure diversa nelle forme, resta ancora attuale la didattica che si rifà all’insegnamento del grande maestro di Atene; quella didattica, cioè, di impronta socratica in cui il sapere discende come conquista personale e non come patrimonio ricevuto in eredità e passivamente accettato; nella quale il ruolo del docente è quello di uno stimolatore intelligente e geniale, capace di adattarsi alle più diverse realtà umane in fieri per promuoverne la realizzazione senza determinarla.
Questo ideale modello pedagogico nella odierna istituzione scola­stica può trovare espressione reale in una lezione « aperta »: aperta nel senso che in ogni momento sia consentito l’intervento degli alunni; aperta anche, e sostanzialmente, nel senso che non abbia uno schema precostituito, se non nella ideazione del nesso tra i nuovi contenuti programmatici e le conoscenze che si suppongono acquisite, ma sia condotta in modo che vengano adeguatamente valorizzati gli apporti individuali.
Una lezione del genere esige inventiva ed estro: qualità non facili da acquisire quando non sussistano certe particolari doti e tendenze naturali, ma che non possono del tutto mancare in un insegnante giac­ché la sua professionalità deve anche comprendere la creatività. Dote, questa, a cui va riferita la libertà d’insegnamento; la quale, perciò, non è facoltà di chiudersi in una torre d’avorio, né corrisponde all’arbitrio pedagogico, ma è possibilità di espressione piena della propria particolare unica e irripetibile umanità. Ragione per cui va affer­mata e sostanzialmente garantita.

Giuseppe Terregino