La cosiddetta “variante inglese” del nuovo coronavirus fa paura: una trasmissibilità aumentata fino
al 70%, numerose mutazioni presenti tutte insieme nella stessa regione (la proteina Spike) e ancora
pochi dati sull’impatto clinico. Dati che fanno sorgere dubbi sull’efficacia delle strategie che si stanno
mettendo in atto a livello globale per bloccare la pandemia e che hanno già spinto le autorità sanitarie
di diversi paesi a introdurre ulteriori misure restrittive.
Stop ai voli dall’Inghilterra, il paese dal quale deriverebbe questa nuova variante, un nuovo lockdown
generalizzato per Londra e le regioni del Sud-Est inglese e quarantena o attenzioni particolari per tutti
coloro che si sono recati oltre Manica nelle ultime settimane sono solo alcuni dei provvedimenti che
stanno suscitando reazioni contrastanti tra esperti e cittadini in vista delle imminenti festività di fine
anno.
Vale la pena a questo punto capire più in dettaglio quali sono le caratteristiche peculiari di questa
“variante inglese”, quali conseguenze potrà avere la sua diffusione a livello globale e quale ruolo
hanno le misure restrittive non farmacologiche imposte alla popolazione.
Ecco cosa dice la scienza ad oggi.


Dal sospetto all’identificazione
La sorveglianza epidemiologica e l’attenzione alla diffusione del nuovo coronavirus è elevata a livello
internazionale. Lo dimostra il grande interesse alla nuova variante di SARS-CoV-2 che, tra l’altro, ha
portato gli esperti dello European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) a pubblicare il
20 dicembre un Threat Assessment Brief dal titolo “Rapid increase of a SARS-CoV-2 variant with
multiple spike protein mutations observed in the United Kingdom”. Il documento, che descrive le
caratteristiche e le conseguenze pratiche della diffusione della “variante inglese”, descrive anche le
condizioni che hanno portato alla sua identificazione e l’attuale situazione epidemiologica.
A far nascere i primi sospetti, seguiti da un aumento delle analisi epidemiologiche e virologiche, è
stato il rapido incremento di casi di COVID-19 nelle ultime settimane nel Regno Unito, più
pronunciato nel Sud Est dell’Inghilterra dove il tasso di notifica dei casi a 14 giorni è passato da 100
casi su 100.000 cittadini nella settimana 41/2020 a oltre 400 per 100.000 nella settimana 50/2020.
E il sequenziamento del genoma virale ha dimostrato che oltre la metà dei casi apparteneva a un unico
cluster filogenetico, una variante nota come SARS-CoV-2 VUI 202012/01 (Variant Under
Investigation, year 2020, month 12, variant 01).
Proprio il sequenziamento è alla base della scoperta di nuove varianti perché permette di analizzare
“base per base” il materiale genetico del virus, un’operazione che non si può effettuare con i classici
tamponi molecolari che amplificano determinate regioni genetiche, senza leggerne la sequenza fine.

Da notare che nel Regno Unito vengono sequenziati regolarmente circa il 10% di tutti i casi di Covid-
19, una percentuale piuttosto alta rispetto a quella di molti altri paesi.
Sebbene i dati suggeriscono che la “variante inglese” sia in effetti nata nel Regno Unito (i primi casi
identificati a fine settembre), oggi è presente in diversi altri paesi, complice anche la grande mobilità
delle persone da e per l’area di Londra: sono stati registrati casi in Danimarca, Olanda, Belgio,
Australia e, notizia molto recente, anche in Italia.


Virus e mutazioni vanno a braccetto

I virus mutano, non è una novità: le mutazioni fanno parte del normale processo evolutivo di questi
organismi e il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 non è certo un’eccezione. “Studi precedenti hanno
mostrato che la diffusione epidemica e pandemica può portare a selezionare mutazioni che
modificano la patogenesi, la virulenza e la trasmissibilità del virus” scrive in un articolo sul NEJM
Ralph S. Baric, della Gillings School of Global Public Health, alla University of North Carolina di
Chapel Hill (Stati Uniti), descrivendo l’impatto clinico di una variante del nuovo coronavirus virus,
caratterizzata dalla mutazione D614G a livello della proteina spike.
In una news del British Medical Journal si cita invece Sharon Peacock, direttrice del COVID-19
Genomics UK (COG-UK) consortium, una collaborazione di 4 agenzie di sanità pubblica, il
Wellcome Sanger Institute e 12 istituzioni accademiche: “Sono già state identificate migliaia di
mutazioni, la maggior parte delle quali non hanno effetti sul virus ma possono essere usate come una
sorta di codice a barre per monitorare la diffusione e i focolai” dice l’esperta. Sarebbero infatti circa
4.000 le mutazioni già identificate nella sola proteina spike.
Come si legge in un report datato 19 dicembre del COG-UK consortium, le stesse mutazioni che
caratterizzano la nuova variante denominata “inglese” non sono nuove, ma erano già state identificate
in passato in altre regioni anche al di fuori del Regno Unito ed erano state studiate per la loro capacità
di modificare la biologia di SARS-CoV-2 e le sue conseguenze sull’uomo. Nello stesso report gli
esperti spiegano anche quali sono i criteri utilizzati per decidere quali mutazioni seguire con maggiore
attenzione una volta identificate attraverso il sequenziamento.


Le peculiarità della “variante inglese”
Una delle caratteristiche principali della nuova variante di coronavirus identificata in Inghilterra è la
presenza contemporanea di numerose mutazioni a livello della proteina spike (delezione 69-70,
delezione 144, N501Y, A570D, D614G, P681H, T716I, S982A, D1118) oltre ad altre mutazioni in
diverse regioni del genoma virale, che portano il totale a 23 mutazioni. Come anticipato, alcune di
queste erano già state identificate e studiate in precedenza come per esempio la N501Y che aumenta
la velocità di crescita del virus e la sua affinità con il recettore ACE2 sulle cellule umane, la “porta
di ingresso” del virus nelle nostre cellule; la D614G che ha un effetto moderato di incremento della
trasmissibilità o la delezione 69-70 che permette al virus di sfuggire alla risposta immunitaria.
Attualmente non è chiaro quale sia l’origine della variante, ma una delle ipotesi più accreditate si basa
sull’origine in un paziente con infezione prolungata da SARS-CoV-2, magari con scarsa immunocompetenza,

nel quale il virus avrebbe accumulato mutazioni a una velocità particolarmente elevata.

Cosa cambia nella pratica quotidiana

La principale preoccupazione legata alla nuova variante si basa sulla sua aumentata
trasmissibilità rispetto alla variante più comune oggi circolante. All’inizio di novembre era
responsabile del 28% infezioni rilevate a Londra e nella settimana terminata il 9 dicembre la
percentuale era salita al 62%. Le prime analisi suggeriscono infatti che possa essere fino al 70% più
infettiva, un problema non certo trascurabile in termini di controllo della pandemia. E anche se i dati
non sono al momento precisi, gli esperti sono concordi sulla necessità di metter in campo misure di
prevenzione della diffusione piuttosto serrate e di tenere sotto stretto controllo epidemiologico la
diffusione della nuova variante.
La (almeno in parte) buona notizia è che, pur essendo più facilmente trasmissibile, la nuova
variante non sembra avere modificato le conseguenze cliniche sul paziente. “Non ci sono al
momento dati che facciano pensare che la nuova variante causi una malattia diversa da quella finora
nota” spiega Peter Openshaw, past-President della British Society for Immunology e Professore di
Medicina Sperimentale all’Imperial College di Londra. Resta comunque fondamentale valutare con
attenzione i nuovi casi sulla base di osservazioni costanti e di una continua raccolta di dati.


Falsi negativi all’orizzonte?

Le nuove mutazioni potrebbero avere un impatto sulle capacità diagnostiche di alcuni test oggi in
uso. La delezione 69-70 presente nella nuova variante causa per esempio risultati negativi nei saggi
di RT-PCR sul gene S, utilizzati in alcuni laboratori del Regno Unito. A onor del vero, bisogna dire
che sono pochi i test che si basano sul gene S per l’identificazione primaria del virus e che l’uso a
questo scopo di RT-PCR basata solo sull’amplificazione del gene S non è raccomandato proprio
perché le mutazioni sono più probabili a livello di questo gene. In effetti, la maggior parte dei test
oggi disponibili va a identificare la presenza di più di un gene del virus. “La regione della delezione
69-70 coincide con uno dei tre target genomici usati in alcuni test di PCR e di conseguenza questo
‘canale’ risulterà negativo in caso di presenza della nuova variante e della delezione. Ma gli altri
due canali non sono influenzati dalla mutazione e sarà quindi possibile identificare la presenza del
virus con i risultati combinati del test” spiega Jeffrey Barrett, direttore della SARS-CoV-2
Genomics Initiative al Wellcome Sanger Institute.


Scacco matto alle terapie?
La notizia della comparsa di una nuova variante del virus è arrivata a ridosso dell’inizio della
campagna vaccinale nel Regno Unito e pochi giorni prima della raccomandazione in favore del
vaccino BioNTech-Pfizer da parte dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA). Sono in molti a
chiedersi cosa succederà a questo punto. Il vaccino sarà efficace anche contro la nuova variante? La
rapida diffusione della “variante inglese” renderà vani gli sforzi colossali messi in campo da
ricercatori e aziende per contrastare la pandemia? Ancora una volta non è possibile dare risposte
definitive.

In effetti la proteina spike è il target dei principali vaccini oggi disponibili o in fase finale di
valutazione e al momento l’immunogenicità della nuova variante non è nota nel dettaglio. La reazione
del sistema immunitario potrebbe essere diversa da quella generata dalla variante classica sulla quale
sono stati “disegnati” i vaccini, ma secondo gli esperti è poco probabile che le mutazioni identificate
siano sufficienti a vanificare l’effetto della vaccinazione. “Nel tempo, con la comparsa di altre
mutazioni, potrà essere necessario modificare il vaccino, come succede per l’influenza stagionale
che cambia ogni anno e che richiede di conseguenza modifiche annuali del vaccino” si legge sul
BMJ, dove si precisa anche che SARS-CoV-2 non muta velocemente come il virus dell’influenza
stagionale e che i vaccini possono essere facilmente modificati se necessario.
Discorso un po’ diverso per gli anticorpi monoclonali oggi in fase di sviluppo e approvazione:
mutazioni nella proteina spike potrebbero impedire o limitare il legame tra l’anticorpo e il virus e
rendere meno efficace l’azione di questi farmaci, come già osservato con altre mutazioni. Al momento
però mancano dati per poter trarre conclusioni definitive.


Prudenza e buon senso: la voce degli esperti

“Reagire di fronte a un virus è molto difficile. È chiudere il recinto quando i cavalli sono già scappati.
Dobbiamo essere proattivi nel contesto attuale e prendere provvedimenti anche forti. Per essere più
espliciti: ritardare l’introduzione di misure restrittive mentre cerchiamo di ottenere nuovi dati sulla
nuova variante avrebbe un prezzo in termini di vite perse. Potremo rivedere queste misure in piena
sicurezza quando gli scienziati avranno ottenuto un quadro più completo dei cambiamenti clinici
rilevanti associati a questa nuova variante” ha affermato James Gill, Honorary Clinical Lecturer
alla Warwick Medical School (Regno Unito).
Di fronte allo scenario attuale gli esperti sono concordi: meglio agire subito per evitare conseguenze
peggiori, anche se questo significa rinunciare alle tradizioni delle feste di fine anno e agli incontri con
amici e parenti.
“Questo periodo di vacanza è importante per tutti noi e siamo dispiaciuti di fronte alle restrizioni”
afferma Openshaw. “Ma è il momento di ora è il momento di riunirsi nella lotta contro il virus
piuttosto che discutere. Godiamoci questo Natale al meglio e festeggiamo di nuovo in primavera e in
estate, quando – speriamo – tutto questo sia finito” aggiunge Peter Openshaw.
In conclusione, niente panico di fronte alla “variante inglese”, ma attenzione ancora più alta da parte
di tutti. “La scienza e la medicina si basano sui dati. Agire senza la guida dei dati è stupido nella
migliore delle ipotesi, se non pericoloso. I dati attuali suggeriscono un aumento delle nuove infezioni
a causa di questo nuova variante, ed è quindi sensato mettere in campo restrizioni” conclude Gill