Non c’è trasmissione (telegiornale o talkshow) in cui non si associ il rigore delle misure anti pandemia alla coartazione del fulgore che la fantasia della gente associa alle festività natalizie. Si teme anche l’impossibilità di un ricongiungimento familiare attorno al desco gioiosamente imbandito.
Si tratta – è vero – di una iattura molto penalizzante, specie per i bambini; i quali non potranno custodire nella loro memoria l’impagabile retaggio di una irripetibile atmosfera di vera festa familiare, bella senza paragoni con lo sfarzo consumistico esterno. Ma si tratta anche di una lezione di vita, che porta a pensare di più a quei soggetti dimenticati in tempo di benessere collettivo, quando l’eccesso di illuminazione porta paradossalmente a nascondere di più l’ombra degli esclusi.
Tanto lusso, infatti, mal si concilia con l’invito a volgere lo sguardo verso chi non ha neppure una coperta per ripararsi dal freddo, come la piccola fiammiferaia della più struggente favola di Andersen. E di piccole fiammiferaie oggi ce ne sono tante.
Allora, nel tempo di Andersen, questa contraddizione era più evidente nelle grandi città. Dove lo sfavillare delle luci nei negozi di leccornie faceva da rovescio alla medaglia dei focolari spenti nelle case abitate dalla povertà, pur essa assai diffusa.
Oggi, la globalizzazione economica ha pure omologato il costume, soprattutto nei riti del consumismo, che trasforma ogni evento di massa in un’occasione per dilatare il mercato del superfluo e dell’inutile. Pure nei paesetti c’è la medesima atmosfera cittadina.
Atmosfera che qui non vogliamo condannare. Anche perché coi tempi che corrono ce ne è quasi la nostalgia. Anche in coloro che hanno preferito tenersene, per ragioni ideologiche o sentimentali, estranei. Dato il triste richiamo alla sofferenza diffusa su scala planetaria da questo ineffabile agente misterioso che si nasconde dietro una sigla sincopata come si usa nei servizi segreti.
Un agente segreto che purtroppo esiste e sparge morte e angoscia in ogni dove. Onde diventa quasi blasfemo invocare la salvaguardia della appariscenza festosa del Natale per dimenticarne l’esistenza. Mentre sarebbe più coerente con lo spirito di questa irripetibile memoria salvifica non far travolgere dal frastuono del lusso consumistico lo spirito francescano di Greccio, dove nacque il presepio. E soprattutto non ammantare di religiosità la difesa, pur legittima, degli interessi mercantili.
Pure ai tempi di Francesco c’erano le disuguaglianze di oggi. I mercanti la facevano da padroni. E proprio contro di loro, nella persona del suo stesso padre, egli si rivoltò. Perché sapeva quanto cinismo si annidasse nella venalità mercantile. Quello stesso che oggi, nell’imperialismo dei mercati, un altro Francesco addita come causa della globalizzazione dell’indifferenza, che lascia indifferenti per l’appunto dinanzi al corpo di un bambino adagiato dalle onde (più pietose delle mani dell’uomo) su una spiaggia, simbolo di una umanità disperata che solo il mare accoglie nelle sue viscere mortali. Mentre l’altra umanità ammanta di splendore la Carità incarnatasi in un bimbo poverello perché lo sguardo del mondo fosse prevalentemente rivolto verso i suoi simili.
Nessuna condanna da parte nostra contro l’economia di mercato. Anche se non condividiamo l’ideologia che la sorregge, non possiamo negare che sarebbe una grave sciagura il suo crollo repentino. Ma per la memoria che abbiamo di una vicenda bellica pure dalle nostre parti, quando le scuole rimasero chiuse per quasi un intero anno, dato il pericolo dei ripetuti bombardamenti, riteniamo anche che sia saggio accettare i disagi che comporta una economia di guerra quando c’è di mezzo la salvaguardia della vita umana.
Giuseppe Terregino