Speciali

Il ricordo di una estate Geracese di Consuelo Maria Valenza

Era di estate ed era di luglio. Le spighe se ne stavano di ocra al sole di mezzogiorno. Le donne, pelle di seta e pelle di rughe, si piegavano a falciare.
Bracce forti d’acciaio, avanti e indietro, mietevano senza sosta. I loro canti, quasi a spezzare l’aria calda, si levavano alti nell’aria.

Un ritmo incessante di gambe sotto a calze di cotone spesse e di fianchi rotondi che parevano il mondo.

Qua e là i covoni, con liana infittiti; erano a mostra della fatica e del sudore nella campagna brulla e immensa e trionfale

A dieci a dieci le fimmine: nonne, mamme, zie e, macari, pi jocu, nicaredde. All’ombra, ora terza e sesta e nona, si assittavano per un tozzo di pane, na pezza di formaggio e un sorso di vino rosso. E mentre se ne stavano così ai bordi del mondo, parlavano, preghiera già fatta, di figli, mariti, di vizi e virtù, di soggire e cugnate.
(… e le spighe lì, io quasi li rivedo, alte, curiose e orgogliose di sé…)

Di nuovo sotto il sole, fazzoletto in testa e in mezzu ai minni. I maschi erano poco più in là. Madidi di sudore. Ovunque si sentiva solo questo: il vento soffiare sulla pelle bruciata dal sole.

I muli nell’aia. Tondo a tondo, pare che avissiru fatto prove, battevano le spighe. Era un girare di giri perfetto, come di giostre lente. Gli zoccoli pesavano sulla terra e da ogni spiga venivan fuori decine di chicchi per pane buono di forno.

Noi, picciridduzzi, guardavamo ed eravamo come spettatori di uno spettacolo straordinario che si ripeteva ogni anno. Uno spettacolo di uomini e di donne, di muli e di galli, di vento e di pioggia, di sole e di nubi, di terra generosa e umile, di cielo alto ma mai tanto da non rivederci u Patri Eterno.

Poi, la magia. Sul far del tramonto, se il vento soffiava, a cinque e cinque tridenti e pale alzavano in aria spighe e paglia. La paglia volava via, come da turbinío presa. Il grano ricadeva, pesante di farina, e se ne stava a far cumuli alti alti alti. Tutti coperti, comu putissiru aviru friddu di notti e notti.

A noi, nicareddi, parianu muntagni. Li scalavamo su e più su e da lassù la campagna la vedevamo, sconfinata e feconda, prepararsi al fresco delle ore buie.

E rientravamo nelle case. Il grano era tanto: nei loro occhi stanchi ma soddisfatti si vedeva. Se ne sarebbero riempiti sacchi neri da mettere sotto i materassi e se ne sarebbe fatta, pugno a pugno, farina di pane, pasta e biscotti.

E rientravamo nelle case e, domineddio, su materassi di spighe d’avena, loro ci dicevano a noi mille cunti duci comu zuccaro filatu. Dormivamo. Poi s’addumiscianu pure iddi.

Io, però, di nascosto, furba e curnuta, mi susía e me li taliavo come fossero santi di devozione. Vedevo in un solo momento, proprio nelle dita strette di mia nonna e di mio nonno, nelle loro spalle piegate, nei loro piedi incalliti, tutta la mia vita: quella che sarebbe stata all’ombra benedicente della loro fatica.

Consuelomv

redazione

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