Non posso nascondere a Madonielive la scoperta di un documento che evidentemente sarà anche conosciuto da molti, ma non da tutti, qual è l’ode di Carmine Papa sul colera del 1837. E questo perché può dare luogo a riflessioni di vario genere sulla pandemia attuale. Almeno per quanto riguarda l’origine e la propagazione.

Carmine Papa e la “peste” del colera a Cefalù
«Il colera era una malattia endemica di alcune zone asiatiche e soprattutto dell’India segnalata già nel 1490 nella regione del delta del Gange da Vasco da Gama
Nel corso dell’Ottocento, a causa di movimenti militari e commerciali dell’Inghilterra nel continente indiano, e delle macchine a vapore che resero sempre più numerosi i viaggi, il colera cominciò a diffondersi su quasi tutto il globo. L’Ottocento, infatti, rappresentò per l’Europa il secolo dello sviluppo industriale, che causò anche l’aumento demografico e l’accrescimento delle maggiori città che videro moltiplicare al loro interno rifiuti e germi, condizioni favorevoli per lo sviluppo di tale epidemia. Il colera dilagò in diverse città europee generando sette pandemie nel corso del XIX secolo. Sei di queste giunsero anche in Italia: 1835-1837, 1849, 1854-1855, 1865-1867, 1884-1886 e 1893. Definito anche “morbo asiatico” a motivo della sua provenienza, il colera era causato da un bacillo (Vibriocholerae), che si introduceva nell’organismo moltiplicandosi nell’apparato digerente».

Questa breve premessa storica (tratta da Wikipedia) vuole far meglio comprendere ed apprezzare la intensa e suggestiva ode di Carmine Papa su “Lu colera di lu 1837” a Cefalù, quando si annuncia un evento che fa dire al poeta: «o Cristiani comununtrimamu,/ca ni vinni in Sicilia la pesti, /e cu na cruda morte nninnijamu!»
Il racconto di Carmine è tutto nell’ottica religiosa di un castigo divino per i peccati della gente; la quale anche qui, da noi, ha dimenticato l’amore del Salvatore, onde si merita una giusta punizione, che è però da intendere come un invito alla conversione del cuore. D’altro canto, allora dalla gente comune e quindi anche dal nostro poeta non si poteva avere altro pensiero e atteggiamento di fronte a un male misteriosamente letale e senza una causa fisica oggettivamente conosciuta.
Ma mettiamo da parte considerazioni razionali sul potere della scienza al giorno d’oggi. Che farebbero perdere efficacia descrittiva ed evocativa ai versi di seguito analizzati. A cominciare dall’attacco, dove spicca l’idea della punizione divina dato che “ogni piccaturi trema e pensa/ pirchì ni vinni sta granni chiamata:/ di Napuli, Alessandria e Fiorenza/ l’avemuntisunui la numinata;/ dilucelu ni vinni sta sintenza; pi li nostri piccati ni fu data”.
Al di fuori dello stato delle conoscenze scientifiche di comune dominio al giorno d’oggi, potrebbero sembrare cose da far sorridere i dialoghi (immaginati dal Poeta) del Salvatore con la Madre e i santi intercedenti a favoredei loro devoti.A cominciare da Santa Rusalia, che ha sempre amato i palermitani con “un gran perfettuamuri”,la quale ottenne la grazia dopo la conversione dei suoi devoti, “quannuPalermu si vitti ristrittu” ed essi si misero a fare grandi preghiere e penitenze. Che però non evitarono che a Palermo morissero con “pesta numero diecimila quattru voti” (40000).
Non erano ovviamente cosi poco credibili tali dialoghi per Carmine Papa e per il popolo della cui anima religiosamente ben formata egli era l’interprete più autentico. Di quell’anima cefalutana così devota e pia in chiesa, quanto onesta e solidale col prossimo.
Dopo Palermo, nel racconto del nostro poeta, è Termini Imerese il luogo altrettanto duramente colpito dall’epidemia, stante il numero neppure computabile dei morti ammucchiati su uno spiazzo. In uno spettacolo veramente macabro: “ma a Termini videvi ogni matinu/ li morti accatastati ‘ntradduchianu”. Assieme al manifestarsi di quel distanziamento legato all’istinto di conservazione, per cui da questa morte ognuno cerca di prendere le distanze, tanto che viene a cessare la “corrispondenza” tra padre e figlio:
E adesso la parte più drammatica del racconto, perché legata all’esperienza diretta del Poeta: «Già chianci Cifalù, fa chiantu ruttu / cavittimu adiratu a Gesù Cristu, e la Madonna vistuta di luttu /prigarlu forti cu lu visu mistu». Una drammaticità che tocca l’acme nel dialogo che segue, in cui è espressa tutta la rabbia di Gesù Salvatore, per cui “si misi Cifalù tuttu in timuri”.
Onde cominciano i pellegrinaggi. In primis dietro la statua del Salvatore portata – come leggiamo nella nota a piè di pagina 24 del volume dell’opera di Carmine Papa – «al luogo, lungo lo stradale, dove in scioglimento del voto della città, prima fu innalzata una piccola cappella, indi un tempietto». Quindi dietro le statue dell’Addolorata della Chiesa di San Pasquale e di San Sebastiano, portate entrambe alla Matrice, mentre ognuno piangeva con gran lamento e pregava con fervore lungo la strada.
Pure San Nicola è coinvolto. E anche lui prega davanti a Gesù con le lacrime agli occhi. E, per finire, l’atto penitenziale in cui il popolo avanza per le strade dietro all’immagine dell’Immacolata, pregando con gran fede e grande costanza. Il suo intervento, di questa Madre di Clemenza, è risolutivo perché si cancelli la sentenza di condanna già emessa.
Anche Cefalù ebbe i suoi morti, nel numero di novecento. Ma nessuno morì di mala morte, senza il soccorso dei sacramenti. Il che per Carmine Papa è stata una grazia grande. Assieme a quelle che hanno riguardato il lato materiale della vita.Delle quali il Poeta annovera che non venne interrotta la macina dei mulini, che bastarono le risorse locali, più il soccorso venuto dal mare riguardo all’approvvigionamento del grano. Di questo – egli conclude –si deve lodare il Salvatore, perché si è trattato di un suo “portento”. Onde la parenesi di lodare Cristo Redentore, perché durante la sua novena ebbe fine il furore del male e così quello della sua festa fu un giorno di vera allegria.
Ecco un Carmine Papa sconosciuto che torna oggi di attualità, con la qualifica di vate naifo di “poeta zappatore” sì, ma che non teme, se non per i limiti espressivi del dialetto, il confronto di coloro che hanno tramandato in tutta la loro struggente carica di tristezza le pene di una pandemia del passato, con caratteristiche purtroppo non dissimili da quella che travaglia il Pianeta in questo tempo di scienza illuminante e tecnologia ultrapotente.

Giuseppe Terregino