A Geraci…

Geraci Siculo – lo conoscete? – è un paese che se ne sta sotto il cielo, a due passi dalla via Lattea. Non si adagia come i paesini collinari ma si fa di sé case e sampietrini sulle spalle delle Madonie. È a settentrione della assolata Sicilia, a chilometri di chilometri dalla città della Santuzza tutta giovinezza di luglio, lei, insomma, Rosalia.

In estate, quando l’afa esagera e la giornata palermitana è in spiaggia di sabbia e di mare, a Geraci la coperta copre le notti a misura di sonno di lattante soddisfatto. In inverno, invece, quando il cielo sulla città se ne sta asciutto e il vento soffia altrove, a Geraci la coperta è solo un po’ coperta perché non copre e il freddo tra gonne e pantaloni è brivido di gambe.

In inverno – io lo ricordo – c’erano quelle ventiquattro ore di tuoni, lampi, nebbia. Allora, i picciriddi di case da vicoli al buio se ne restavano con tutti, e nonni e zie e madri e padri e fratelli e cugini, a casa. Sul pavimento, freddo come caldo è l’asfalto in estate, stava la conca da carboni accesi e scorze di arance. Almeno, e dico almeno, a dieci a dieci si facevano le sedie attorno.

A finestre chiuse e coperta larga tutti, e nonni e zie e madri e padri e fratelli e cugini, trascorrevano le ore segnate dall’orologio. E si parlava del prima, del dopo, dell’ adesso; del sopra, del sotto, dell’avanti e del dietro; del dentro, del fuori, della destra e della sinistra. E si rideva da denti da latte, di carie, di dentiera: labbra larghe e occhi stretti; zigomi all’in su.

E poi e poi si mangiava: nuci, nuciddi, cìciri , e con le carte, a quattro a quattro, la briscola che i nonni non vincevano mai e i bambini contavano e senza mettere in colonna facevano di conto.

E i cunti: non cominciavano da c’era una volta in poi ma da ‘U Zu Vartulu, chiddu d’acchianata, avìa…A za Cuncetta, chidda d’a putìa vinnìa…San Iacupuzzu passò, a mmia pi parsi ridìa…’ E poi, per fare della paura pace, la preghiera era a detta della nonna e e se la volessi ora pregare la pregherei così:

o Signuruzzu,

di stu tempu che è malu tempu

fanni bontempu.

Semu nichi di vrazza

Picciriddi di chiantu lestu:

taliani ca di scantu n’avemu

e u munnu ni pari pestu.

Tu sì lu Patri, tu sì lu Figghiu, tu Spiritu sì,

Ascutani bonu: Un ti vutari

ca paci sulu tu ni pò dari.

Quando le ore erano quelle da letto, di baci e abbracci si faceva la notte buona. Spente le luci, nei letti grandi, che sembravano piazze di borgata, tutti i nicareddi. ‘Ora durmiti’. Si faceva così buio e se scrusciavanu i trona di scantu ci si abbracciava stretti stretti.

Il fratello, quello che di anni ne aveva di più, diceva: ‘zitta, ora passerà, passerà e tornerà di sole ogni giornata’.

Sì, e nella testa si facevano spazio pensieri di bonaccia anche se nel cuore la paura faceva eco di tuono.

Passerà. Sotto questo cielo tutto palermitano, in queste strade quasi deserte, nelle aule silenziose anche se estate non è, in casa tutti, come quando faceva freddo a Geraci. Passerà così come passava e di sole tornavano le giornate. Anche stavolta parlando, ridendo, mangiando e cuntannu passerà.

Passerà di preghiera quaresimale che la nonna pregava e, se la volessi pregare oggi, la pregherei così:

o Signuruzzu,

di stu tempu che è malu tempu

fanni bontempu.

Semu nichi di vrazza

Picciriddi di chiantu lestu:

taliani ca di scantu n’avemu

e u munnu ni pari pestu.

Tu sì lu Patri, tu sì lu Figghiu, tu Spiritu sì,

Ascutani bonu: Un ti vutari

ca paci sulu tu ni pò dari.

A noi, per questo tempo di malutempu

Consuelo Maria Valenza

Foto della collezione di Leonard Freed di proprietà del Comune di Petralia Sottana

redazione

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