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La foto che proponiamo alla visione di chi avrà la curiosità di guardarla suscita insieme nostalgia e rabbia. La nostalgia di un mondo lontano anni luce da quello attuale, dove solo di tanto intanto sentivi una voce umana rincorrente il suono di un campanaccio ribelle e fuggitivo. A differenza di quello caotico e tecnologizzato oltre ogni misura, dove il rombo assordante dei motori neppure emerge dal frastuono senza tregua d’ogni genere.E rabbia, perché non ha avuto un seguito il bene che, pure tra molti stenti, esso riusciva a donare, ripagando la fatica degli addetti alla pastorizia, esposti quotidianamente al vento, all’acqua e alle intemperie più stressanti.
Quello che stiamo richiamando alla memoria era il mondo delle Madonie, così descritto da Benedetto Passafiume nel suo De origine ecclesiae cephaleditanae eiusque urbis et diocesis:


«Il territorio della Diocesi di Cefalù ha ad occidente un eccelso ornamento nel massiccio montuoso da Tolomeo denominato Craton, da altri invece Moron o Nebrode, comunemente inoltre Madonia. Eccettuato l’Etna, esso è più alto e famoso degli altri monti sicani. Opposto al mar Tirreno, biancheggia di neve fino all’estate. Dalle sue sorgenti perenni discendono al mare parecchi fiumi. Rinomato anche per erbe e radici, nonché per eccellenti pietre e minerali, abbonda di daini, cervi e altri animali venatori, oltre che di pascoli così ubertosi che gli ovini che vi pascolano ne hanno la dentatura aurata».
Da decenni sentiamo parlare del Parco delle Madonie come di un territorio da preservare nel suo stato naturale perché non vadano perdute non solo la caratteristica del suo florido e attraente paesaggio, ma anche e soprattutto le immense risorse che davano i mezzi vitali di sostentamento, nonché prosperità, quando venivano bene utilizzate, alle popolazioni del Circondario. Ma – forse mi sbaglio – poco si è tenuto conto della vocazione principale del territorio, che era proprio quella dell’allevamento. Se è vero come è vero che vi si praticava una florida pastorizia, i cui prodotti abbondanti erano anche rinomati e ricercati al di là dei limiti territoriali. Mentre una numerosa fauna selvatica trovava nutrimento vitale e habitat confortevole.
E’ evidente che una tale attività doveva essere condotta con metodi nuovi e con obiettivi strategici aggiornati, utilizzando all’uopo strutture adeguate e le tecnologie più avanzate sul lato della manipolazione dei prodotti. E questo era lecito aspettarci da un Ente all’uopo preposto, qual era per l’appunto l’ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia). Non quello che si è verificato nei fatti, con una emigrazione verso il Nord dell’Italia e verso l’estero della gran massa della popolazione contadina attratta dal miraggio di una industrializzazione connessa al miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso.


In quel clima le attività agricole finivano con l’essere considerate improduttive e perciò non più praticabili. Questo poteva risultare vero. In assenza però – è bene precisarlo – di quelle modifiche equivalenti ad un processo di industrializzazione nella tecnica operativa e nel rapporto sub-manageriale degli addetti. Con compiti non servili, ma assegnati sulla base della competenza, nel pieno rispetto dei diritti e dei doveri individuali in relazione al proprio ruolo. Il che poteva significare, per esempio, la trasformazione del latifondo in azienda cooperativa gestita nella direzione della maggiore produttività rispetto alla natura agro-geologica del terreno. E non – come è avvenuto – in un aggregato di particelle improduttive per mancanza di mezzi finanziari e tecnologici atti a garantirne un incremento di produttività rispetto allo status quo ante.
Lo stesso doveva valere per l’allevamento del bestiame. E qui entra in argomento il caso nostro. Quello del Parco delle Madonie. Che aveva la potenzialità di supportare ad alto livello di produttività un numero ben consistente di aziende silvo pastorali, capaci di una produttività ampiamente remunerativa senza intaccare i pregi paesaggistici dello stupendo massiccio delle Madonie tanto decantato dal Passafiume. Ovviamente, ove si fosse pensato, a livello di governo centrale, di impiegare le risorse finanziarie disponibili a pro delle iniziative più scientificamente credibili su tale prospettiva, evitando quelle provvidenze a pioggia atte solo a favorire gli speculatori di turno.
Qualcosa, in vero, in alcune parti della Sicilia si è fatto. E forse anche da noi non si sarà stati con le mani in mano in attesa di tempi migliori. Ma si consenta a un laudator temporisacti – come avrebbe detto Orazio – di rimpiangere una realtà passata, benché povera, non così poco fiorente qual è quella attuale.
Giuseppe Terregino