Quando, oggi, si parla di turismo, se ne parla sempre, anche da parte di persone non aliene dal considerare il lato morale dei beni naturali e artistici, in termini mercantili di investimenti e profitti. Poco si tiene conto del fatto che il rapporto umano con la natura è tutt’altro che neutro riguardo alla formazione di quella che oggi sembra un non senso identificare con l’essenza della natura umana: l’anima si diceva una volta, ossia la dimensione spirituale dell’uomo, nel cui intimo si conchiude la felicità, ossia quella forma di benessere che non è soltanto materiale, ma si realizza precipuamente nel lato psicologico del rapporto sociale e ambientale.
Proprio di quest’ultimo ci piace parlare. Di quella serenità che riemerge quando il contatto con i luoghi in cui si è compiuta buona parte della “stagione lieta” riporta alle sensazioni che facevano fiorire la speranza di un domani senza affanni. Non ritrovare tali luoghi nell’aspetto che aveva favorito quelle sensazioni corrisponde a smarrire il senso della propria identità; a vivere il dramma esistenziale di un camminare senza meta nel deserto. Cosa, questa, che la progettualità turistica non deve sottovalutare in una logica di salvaguardia ambientale, che non è soltanto preservazione di un patrimonio di risorse naturali in direzione della salvaguardia del benessere fisico, ma anche, e non secondariamente, rispetto di quelle valenze dei beni naturali attinenti all’identità culturale e spirituale dei fruitori storici e occasionali.
Dei tanti luoghi in cui ebbe a formarsi il personale senso del bello e del bene, ci sovviene il ricordo di un angolo recondito per lo più trascurato dalle torme turistiche della domenica. E questo perché in questo angolo del bosco prossimo a Piano delle Fate, luogo oggi di festini paganeggianti, ad onta della indiscutibile sacralità della zona attorno a uno dei più rinomati santuari mariani, c’è la sintesi lirica del mondo di ricordi e di pensieri che un gratterese si porta dentro anche lontano dal suo paesello. C’è il ricordo delle soste durante i pellegrinaggi alla Madonna, quando, ormai prossimi al Santuario ci si fermava un po’ per un atto di ringraziamento, quasi la Madre fosse scesa da lassù per sciogliere ogni dubbio sulla sua disponibilità all’ascolto. C’è il ricordo della frugale colazione nella frescura del bosco, veramente salutare nelle giornate calde dominate dal solleone. C’è quanto riesce a condensare in versi il componimento di un figlio di questa terra trattenuto lontano dalla sue personali vicende di vita, che in un momento di solitudine si è lasciato prendere dalla nostalgia di un gioioso desinare nella vicina spianata.
Piano di fate
Ed è lontano il giorno
che mi sfuggì e a ripensarci
trascorro ore insensate,
mentre dolci levigate
sembianze scorrono
nel trasogno d’andata
luce e nella blanda
eco d’un richiamo antico.

Così fu, e non saprei
se fu per caso,
che l’incorniciata area dai boschi
colse per me l’odore
e il sibilare allegro
e lieta li ripose
sul desco mio d’incanto.

Arringare di greggi,
forse soltanto un’eco,
e scampanare vago
tra le fratte
prendono il campo
a fole di pensieri
che l’incantata scena
invadono a stormi.

Riposo dell’anima
più atteso
non riconobbi andando
oltre di là dal tempo
che di futura speranza
gioire faceva
la virtù degli elci
e dei frassini rorati di manna.
GIUSEPPE TERREGINO