“Il navigante che veleggiò quel mare” verso oriente sopra il capo di Santa Lucia vedeva con stupore e meraviglia, troneggiare sul caseggiato attorno come ai suoi piedi, le torri cuspidate in avamposto, un monumento simile a fortezza, monito insieme e baluardo di difesa. Ed era un edificio religioso, una cattedrale, la prima delle tre erette dai Normanni; così voluta da chi la fece costruire per scoraggiare scorribande nostalgiche e revansciste ed indicare il distacco dal potere di Bisanzio in ordine al culto divino.
Voleva essere il segno del ripristino del Cristianesimo in comunione col Vescovo di Roma giusta la Legazia Apostolica assegnata nel 1098 al Conte Ruggero il normanno dal papa Urbano II. Del quale privilegio i re Normanni fecero sempre uso, avocando a sé la nomina dei vescovi e rivendicando la titolarità del potere religioso in concorrenza col cesaropapismo bizantino.
Il vescovo così nominato era anche il governatore civile del territorio della sua cattedrale con la delega dei poteri regi, salvo il diritto all’esercizio del potere in sede penale per i reati di lesa maestà (tradimento) e lesa umanità (omicidio).
Con queste premesse storiche, non stupisce il richiamo all’epoca normanna di un nuovo Vescovo di Cefalù. Anche se i suoi poteri non sono più quelli di un tempo e non ha neppure significato un potere religioso in senso coattivo sui fedeli. Ma trattandosi di Cefalù, c’è nella eredità di Ruggero II un segno perennemente attuale, stante la sua attinenza alla natura del ministero vescovile nella sua dimensione soprannaturale. Che fa memoria del trascendente fulgore di cui Gesù diede un saggio chiaro ed eloquente agli Apostoli prescelti sul monte Tabor, perché la chiesa istituzionale che stava fondando non perdesse di vista la sua meta come “Madre dei santi e immagine della città superna”, a prescindere dalle inevitabili debolezze umane dei pastori che l’avrebbero guidata.
Un segno oggi identificabile ed identificato con “luce gentile” che promana dallo sguardo del Pantocratore della nostra cattedrale, nel quale è universalmente ravvisata l’acme di ogni umano cimento figurativo sul mistero della Trasfigurazione. Tanto che i fedeli della chiesa locale gli hanno dedicato la ricorrenza liturgica di tale mistero e la Chiesa universale lo ha elevato a icona del suo essere “Madre e Maestra di tutte le genti” (Giovanni XXIII) in due momenti topici del suo magistero, quali sono stati il Convegno ecclesiale di Palermo del 1995 e l’Anno della Fede (ottobre 2012-novembre 2013) indetto da Benedetto XVI.
Nel primo caso vi furono vescovi (uno di mia conoscenza) cosi affascinati da questa icona da voler celebrare messa sotto il suo sguardo prima di tornare alle loro sedi di provenienza. Altra la dimensione e altro il valore della scelta nel secondo caso, trattandosi del cinquantennale di un evento storico di vitale importanza per la Chiesa universale, quale doveva essere, nelle intenzioni di chi ebbe l’ispirazione di indirlo, il Concilio Vaticano II. La scelta della nostra icona in rappresentanza di tale evento ha fatto divulgare oltre ogni confine terreno il significato per cui la si è venerata per secoli.
Tale scelta, quasi in contemporanea col pellegrinaggio (nel 2012) a Gibilmanna di quello che sarebbe divenuto Vescovo di Cefalù, il quale di questo fa memoria nella suo messaggio alla comunità della Diocesi, ove fa pure cenno alla “Luce gentile che si irradia dal volto luminoso del bel Cristo Pantocratore”, assumendola a guida del suo ministero, ci fa pensare a un segno profetico per il futuro della nostra Diocesi.
Questo, insieme al fatto che egli viene da Roma, dalla cerchia dei collaboratori pastorali del Santo Padre, ci fa supporre un intendimento attuale congruo con lo spirito che animava l’atto del sua fondazione, quale ci è dato di leggere nelle parole di Ruggero scritte nel Diploma del 1145: «abbiamo nutrito il proposito di costruire una chiesa ad onore del Santo Salvatore nella Città di Cefalù, nella quale fosse praticata l’osservanza della canonica religione. … . Inoltre, col consenso e l’approvazione di Ugo, al tempo Arcivescovo di Messina e Metropolita di quella sede, col consenso anche dei canonici sia di Messina che di Troina, (abbiamo stabilito) che nel medesimo luogo(Cefalù) si costituisse un Episcopato e che lo stesso permanesse in perpetuo e inviolabilmente».
Che le parole di Ruggero fossero sincere e dettate da spirito di fede, o da volontà sovrana volta alla captatio benevolentiae del papato di Roma e dei sudditi, nel nostro caso, conta poco, perché un tale pronunciamento ci dice comunque quale fosse la temperie in cui quelle parole erano attese. E perché i Normanni in quello che stava facendo e dicendo Ruggero non facevano altro se non esercitare il mandato affidato al Conte Ruggero con la Legazia Apostolica. Della quale opera sono segni ben vistosi le tre cattedrali, in ordine cronologico, di Cefalù (1131), Monreale (1172) e Palermo (1185), nonché alcuni significativi insediamenti monastici, piccoli nelle dimensioni, ma importanti nella funzione religiosa di loro pertinenza.
Il ripristino della religione cristiana e il passaggio della chiesa di Sicilia sotto il patronato del Vescovo di Roma non furono, però, repentini e traumatici. Nella gestione di questi mutamenti prevalse la massima di “dare tempo al tempo”. Il rito greco nella liturgia continuò a convivere col rito latino, così come il culto islamico ebbe i suoi spazi ad hoc. Mentre greci, arabi, popolazioni autoctone e nordici a seguito dei nuovi sovrani trovarono modo di integrarsi in una convivenza sostanzialmente pacifica. Come dimostrano anche gli edifici religiosi e civili di maggiore rilevanza, nei quali è palese un sincretismo che denota la sintesi, sorprendentemente armonica, di stili e tecniche di diversa provenienza, segno di una qualificata manodopera composita.
La stagione normanna della Sicilia sembra un punto di riferimento irrinunciabile del nuovo Vescovo, il quale fa risalire a tale stagione anche l’identità di una Cefalù “terra d’incontro tra i popoli”, con l’auspicio ovviamente, non dichiarato ma implicito nel seguito della frase, che tale incontro avvenga sotto il segno della solidarietà, come è sperabile che avvenga in una città distintasi per essere stata “luogo privilegiato di sostentamento dei poveri e di quanti vi transitano”. Il che comporta anche l’idea di una attività turistica non cinicamente mercantile ed esosa, ma in prevalenza volta a favorire la fruizione in senso estetico del patrimonio di beni naturali e artistici presenti nel suo territorio anche a quegli strati della popolazione non dotati di mezzi finanziari cospicui, che però conservano il diritto di accedere al godimento dei beni che sono patrimonio dell’umanità in quanto cantano la gloria di Dio e la grandezza dell’uomo. Il Vescovo, innamorato del volto dell’immagine di Maria SS. di Gibilmanna, ha raccomandato a Lei la comunità che veniva affidata alla sua guida pastorale. Non si può dubitare che la Madonna lo abbia già ascoltato. Il che ci fa essere speranzosi anche riguardo alla sempre maggiore armonia tra uomini e realtà naturale in tutto il suo potenziale e reale fascino, che non è poco né di poco conto dentro e fuori dell’imponente e splendido massiccio delle Madonie dalle pendici amene e – secondo il Passafiume – biancheggiante di neve fino all’estate.
Giuseppe Terregino