Il 9 Febbraio 1639 nel convento di s. Antonino di Palermo moriva Frate Umile Pintorno da Petralia Soprana, artista madonita del 1600, estremamente attraente per la “duplice” personalità espressa nelle sue opere da due differenti messaggi, uno religioso, connesso alla sua forte vocazione mistica, l’altro  sociale e velatamente criptato.

La sua prima opera datata 1624 è  ubicata all’interno della Chiesa Madre di Petralia Soprana.

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Creato appositamente per essere collocato nel suo paese natio, come gesto di ringraziamento per quella terra che accolse i primi “palpiti artistici ”,  il Crocifisso in legno policromo è ubicato nella cappella destra della Chiesa Madre intitolata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, anche se l’originaria destinazione fu la chiesa di Santa Maria di Gesù annessa al convento dei Padri Riformati dell’Osservanza.

Il Cristo, colto prima del suo ultimo respiro, ha appena pronunciato il terribile lamento: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?” (“Dio Mio, Dio Mio, perché mi hai abbandonato?”) ed ha piegato la testa sul lato destro. Un raggio di luce, proveniente dalla finestra della navata opposta al Crocifisso, piove discreto sul capo coronato di spine e sui capelli intrisi di sangue. La macchia scura del voluminoso intreccio di roghi, lascia distendere sul bellissimo volto un velo d’ombra, accorgimento ricercato dal Pintorno per distogliere l’attenzione dalla bellezza di quel corpo anatomicamente perfetto e far volgere la mente al mistero divino. Seguendo la luce naturale che dall’alto illumina con estrema riservatezza il Cristo, si osserva come questo raggio, sfiori il collo, accarezzi la spalla e l’omero, rilevando grumi di sangue che dal palmo ferito della mano inchiodata scorrono lungo l’avambraccio e si raggrumano sino al gomito.

Sul petto la luminosità si fa solare, la gabbia toracica si solleva, dilata le costole per un lungo sospiro ed ancora si sofferma per rivelare l’aperta ferita sul fianco e la macchia scura di sangue che grondante dal cuore, con crudo realismo, scorre lentamente e si coagula in una moltitudine di gocce dalla perfetta cromia.

I muscoli delle gambe e dei piedi sono contratti e sembra che stentino a reggere il peso del corpo. Nelle vivide ferite delle ginocchia sublima la debolezza umana delle cadute lungo il tragitto del calvario.

Il perizoma, limitato alla semplicità del suo candore, è costituito da un classico panno bianco, trattenuto da una corda che al centro copre il pube e a destra si arriccia in uno svolazzo che lascia presagire la tempesta che eromperà con la morte del Redentore, lasciando interamente scoperto il fianco.

Nell’opera di Petralia Soprana, Fra’ Umile  non si accontenta di scolpire la sola superficie esterna, ma entra all’interno di quel corpo martoriato. S’insinua nel capo, nella bocca socchiusa che lascia intravedere la gola assetata, nella cassa toracica per richiamare attraverso la ferita del costato, gli organi precordi squarciati dalla lancia; poi inturgidisce le vene che premono sulla pelle, rende le colate di sangue come croste che intridono l’epidermide. Con la corona di roghi sfregia malinconicamente quel volto, umanissimo e vero nella nobiltà dei suoi lineamenti, ma non può mancare la spina che pendente dalla corona s’infilza da lato a lato nel sopracciglio sinistro, poiché proprio questa scelta artistica rappresenta la firma dell’autore.

Infatti, la spina che trafigge il sopracciglio sinistro, risponde a una mistica identificazione del Pintorno, il quale soffre di un misterioso male all’occhio sinistro; quell’aculeo conficcato proprio dove il suo male s’insinua sembra avvicinarlo ancora di più al suo Salvatore.

È custodito nel volto il segreto del Cristo, che dall’alto della sua imponenza irrompe nell’animo del fedele. Si tratta della parte più bella e drammatica dell’intera opera. Si apprende da alcune tradizioni orali che “Gli angeli erano quelli che aiutavano il Pintorno a scolpire il Sacro Volto”.

Il Viso di Cristo, che esala il suo ultimo respiro, rivela in mezzo ad un terribile dolore, una calma e una dolcezza ultraterrena. È divinamente sereno, con le labbra tumefatte che si schiudono in un appena accennato sorriso, proprio di colui che non ha voluto glorificare la sofferenza ma l’amore. Gli occhi sono socchiusi, ma ancora presenti, diretti al cuore di chi osa timidamente guardare il corpo martoriato, sentendosi responsabile nella propria intimità di quell’omicidio.

A completare l’opera un putto piangente che sopra la testa del Cristo sostiene il cartiglio con la scritta I.N.R.I. e assiste avvilito e angosciato alla sofferenza del Signore.

 

Simona Giuliano