Si stà diffondendo un rinnovato interesse verso la pratica in medicina, dell’uso della narrazione, che si basa sull’ascolto del paziente. Ascolto ed empatia dovrebbero essere alla base di qualunque relazione paziente-medico, nonché relazione terapeutica, sia che si affronti una malattia fisica che psichica.
Le statistiche recenti, evidenziano che i medici di base e non solo, sono sempre più impegnati in una burocrazia che toglie spazio al momento più importante dell’incontro paziente-medico ossia l’ascolto, da qui l’allarme degli stessi addetti ai lavori che riconoscono il venir meno di quello che è il principio base di un buon lavoro all’interno delle relazioni d’aiuto.
Davanti ad un pc si scrivono ricette elettroniche, schede da compilare, piano terapeutico, i medici ascoltano meno e prescrivono esami sempre più inutili, forse per non sbagliare , ma non è solo l’aspetto tecnico ad essere rilevante per una corretta diagnosi, quanto la dimensione umana.
La medicina narrativa punta a ristabilire il dialogo fondamentale per trovare la terapia migliore, per alleviare la sofferenza della persona, con un approccio accogliente.
Un recente libro scritto dalla pediatra Parrizzi e dal giornalista Fossati dal titolo “Parole che curano”ha riscosso un notevole successo nel settore, affronta un tema rilevante, un viaggio nella medicina narrativa con una prefazione molto bella del prof.re Veronesi, da anni impegnato in prima linea nella lotta contro la malattia del secolo (il cancro). Nella prefazione , cosi si legge:
“…Se il medico vuole conoscere il suo paziente (e quindi curarlo meglio) deve lasciarlo parlare di sé. È impegnativo, ma non è una perdita di tempo, come qualcuno potrebbe pensare… Nel lavoro di medico non possiamo portare solo la preparazione scientifica e la competenza professionale… Il dialogo fa bene sia al malato che alle cure, perché solo ascoltando il paziente il medico può capire fino in fondo se la terapia funziona o se ha bisogno di essere ricalibrata sulla situazione di ‘quel’ malato…”

L’ospedale e la malattia in generale spersonalizzano, rendono più fragili la persona che vede frantumare la sua biografia. Il medico può restituire al paziente la sua individualità. Il senso di solitudine e smarrimento chiedono spazi e tempi di accoglienza. Anche Cancrini a proposito della depressione suggeriva il monito “date parole al dolore”in uno splendido libro che affronta la malattia non sotto l’aspetto tecnico, ossia sotto la dimensione del disordine molecolare, ma umano, ed ancora M.Erickson con la sua frase celeberrima rivolta ai pazienti “la mia voce, ti accompagnerà”.
Il dolore può essere misurato, la sofferenza deve essere raccontata, chi opera nelle relazioni d’aiuto non può non allenare l’ascolto, non può permettersi di parlare secondo logiche da manuale, ha un dovere etico ed umano che impone regole alte di rispetto della persona, gli strumenti che possiede vanno messi al servizio del ruolo che ricopre dove il senso di responsabilità, verso l’accompagnamento nel percorso della sofferenza deve essere continuo. Le strutture sanitarie è bene che continuino il cammino di umanizzazione.
Un’appello dunque ad una maggiore attenzione alla persona, soprattutto quando incontra la triste esperienza della malattia “restiamo umani” .

Sabrina Miriana