A proposito dell’estemporanea caltavuturese 2015

A fronte della languidezza della proposta estiva caltavuturese (certo non per colpa dell’amministrazione comunale, peraltro insediatasi assai da poco), uno degli eventi culturali più significativi è stata l’estemporanea di pittura in memoria di Vincenzo Rizzitello, svoltasi il 23 agosto.

Una babele, invero, di tele che, accostate le une alle altre, s’illuminavano a vicenda per legami più o meno scoperti, in un sabba di colori, immagini, linee e macchie, disvelando i vari e diversificati percorsi intellettuali dei partecipanti, dai naïfs agli allievi di scuole prestigiose, veri professionisti di un mestiere sempre più difficile da esercitare e da decifrare.

In effetti, il gusto postmoderno segue una deriva ove ogni esperimento è considerato lecito, sicché conta, più che l’obsoleta idea di bellezza, il significato di un gesto che spesso si presenta come provocazione.

Emerge così il narcisismo di molti dipinti, nella beata autocontemplazione che esclude ogni tentazione di desiderio per l’altro; anche se, a ben guardare, attraverso l’inquietudine dei pennelli, dalle latebre della coscienza mandano il loro rauco e incontenibile grido gli inferi dei sensi, reclamando i propri diritti incoercibili e impellenti.

Non vorrei però appiattirmi in stereotipi graveolenti di una bassa vulgata psicoanalitica: piuttosto, mi propongo di dedicare qualche divagazione a due artisti, che più incontrano il mio gusto, forse attardato e classicistico.

Naturalmente mi scuso con gli altri che resteranno nell’anonimato, anche se a insoddisfacente giustificazione denunzio che essi meriterebbero assai più di una nota modesta qual è questa mia. Senz’altro la pleiade degli artisti caltavuturesi esprime una sapienza pittorica difficile e complessa, con un nodo di concetti oltre che di riferimenti iperculturali, tale da renderli testimoni credibili e affidabili dell’arte madonita contemporanea.

Ed è per questo che dobbiamo vedere più da vicino i due numi indigeti: un uomo e una donna, per omaggiare la parità di genere e per evidenziare i due volti della pittura, vale a dire il solare e l’isiaco.

Intendo: Tommaso Muscarella e Maria Colletti.

Fin dall’anno scorso, ammirando i loro lavori, m’è sovvenuto il ricordo di un dibattito che ha attraversato per secoli la nostra cultura, se cioè l’oggetto estetico sia il frutto di ars o di ingenium. E, con esso, le pagine cruciali del De Sanctis circa Dante e Petrarca (si licet parva componere magnis), ove il grande critico s’interrogava se un classico della letteratura debba essere un genio o un artista.

Perché il fascino dei quadri dei nostri due pittori fissa la sua differenza in questo: gli acquerelli di Muscarella nascono da un dono naturale e spontaneo, mentre le imponenti tele della Colletti sono il risultato di una laboriosa tecnica scaltrita e sofisticata. Altrimenti detto, riconosciamo nei due approcci gli ambivalenti, complementari aspetti della bellezza classica o, meglio, neoclassica.

Di fronte ai miniaturismi del primo dobbiamo parlare di ierofanie, ove si rivela nella sua essenzialità il theios aner, mentre nei soggetti dell’altra rinveniamo lo splendore pagano della natura o degli interni sublimati in «epifanie».

Un afflato mistico, che emana la serenità della riconquistata salute dell’anima, innalzatasi in preghiera estetica: tale è l’impressione suscitata dalla visione della produzione dell’ormai esperto autodidatta. Mentre riguardo alla provetta pittrice penserei a un consapevole e avvertito intellettualismo nella sicura percezione artistica:  un universo di simboli con qualche vago richiamo esoterico, che sembra più un criptismo iconologico che non un velato linguaggio iniziatico.

Tanto l’uno quanto l’altra recano lo stigma di un codice espressivo rivolto a tutti e d’immediata fruizione, com’è stata appunto per secoli la storia dell’arte. Potremmo, invero, parlare di ludicità, nel senso nobile precisato da Huizinga e, più recentemente, da Umberto Eco, sicché sembrerebbe che i nostri due concittadini (e, naturalmente, gli altri sodali) intessano un dialogo sotterraneo con la cultura, ma per nulla  scontato e banale, pur nella dissimulazione del «gioco a nascondere», in ciò rivelandosi autentici siciliani.

Una sfida per gli esegeti? Ma le Muse incantano anche per i loro segreti senza segreti.

Rosario Pollina  

Redazione

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