L’iniziativa dell’Amministrazione comunale di Gratteri di onorare Angelina Lanza Damiani Almeyda con una commemorazione celebrativa contestuale all’inserimento del suo nome nella toponimia gratterese, merita certamente il plauso dell’intera comunità madonita. Se è vero, infatti, che è la “buona gente” di questo paese la protagonista dell’interiore mondo poetico della scrittrice, è altresì vero che la Madonia – come lei sempre denomina il complesso montuoso nella sua imponenza – è lo scenario di immensurabile bellezza che ne costituisce lo sfondo panoramico. E questo appare anche nella illustrazione che lei fa del suo intento di scrittura al Padre Bozzetti, al quale annunzia la fine della “prima stesura di un libro in prosa”. «Un libro – lei dice – dove vorrei far echeggiare l’amore al mio Santuario, la poesia della famiglia, la bellezza dei monti, e anche la sanità morale dei nostri contadini , dei loro costumi, delle loro leggende».
Il risultato è andato ben al di là delle sue pur nobili intenzioni. Perché è venuta alla luce un’opera di alto valore poetico, un vero e proprio classico del genere composito. Dove storia, folclore, narrativa e poesia si fondono in un tutto armonico, in cui ciascuna parte è complementare delle altre, senza perdere il pregio della sua autonoma identità. Così è della storia, dove ogni dato ha un riscontro sicuro, mentre vengono scartate, ridotte al ruolo di citazioni inessenziali, congetture prive di fondamento, come, per citare un esempio, il caso di una leggenda che correva a Gratteri circa «la sparizione della comunità (dei Premonstratensi) e la distruzione dei vasti fabbricati conventuali, di cui si scorge solo l’area, presso la chiesa». Rispetto alla quale leggenda, l’autrice, con netta e inappellabile sentenza, conclude: «Di storico, nulla». Aggiungendo, come semplice supposizione, che le cause dell’abbandono di San Giorgio siano, perché coeve, assimilabili a quelle dell’abbandono di Gibilmanna.
Una cosa che, invece, le dà merito (in verità poco riconosciuto) è l’aver “segnalata per la prima volta all’attenzione dei cultori d’arte» la rimanente parte della chiesa. Una segnalazione, questa, non unica, se è vero – come ancora lei riferisce – che qualcosa di analogo ebbe a compiere per la «chiesetta di San Biagio, sotto il Monte Sant’Angelo, che in questi tempi ebbi il piacere di trovare e di segnalare agli studiosi ». Due casi, ed altri ancora si potrebbero trovare, che dicono come la Lanza non percorresse il nostro territorio sulle ali della fantasia poetica, ma con i piedi ben piantati sulla terra e senza smettere quell’habitus culturale dell’eredità paterna. Di un padre, Giuseppe Damiani Almeyda, che era stato tra i protagonisti, come architetto e storico dell’Arte, della felice stagione dello stile Liberty, che segnò a Palermo un’epoca irripetibile. Per questo La casa sulla montagna della Lanza può essere considerato un testo di riferimento prezioso per gli studiosi di storia dell’arte nel nostro territorio.
Ma la competenza della Lanza emerge anche in materie che sembrano lontane dalla letteratura. Quali sono la botanica e la zoologia. Delle quali materie essa dimostra una conoscenza non di poco rilievo. Quale emerge dalle frequenti citazioni, che danno un quadro ben vasto della flora e della fauna madonite, non in astratto ma concretamente legato alla vita e alle abitudini di piante e animali. Così come sono dettagliate e puntuali le illustrazioni dell’ambiente naturale nel suo aspetto e nella dinamica della sua evoluzione.
A proposito di esse, quale descrizione può superare come sintesi poetica lo sguardo della Nostra da lassù, sulle Madonie, dal “più alto dei tre culmini centrali, l’Antenna,” dopo un’ascesa assai faticosa, attenuata solo dal fascino dei luoghi e da un indomito amore per la bellezza: «Certo, di qua, luminoso, azzurro, vastissimo, m’appariva il Tirreno con le sue natanti Eolie. E la terra stessa mi pareva un oceano di enormi ondate immobili e luminose. Non città, non villaggi, né campi, né vie, né selve, né fiumi nella gran luce. Sole, e monti azzurri, e nebbia d’oro. Pareva il luogo e l’ora della creazione prima».
Le descrizione della Casa sulla montagna non hanno nulla da invidiare a quelle della narrativa classica. Fuori di ogni corrente, la prosa di Angelina Lanza ha una sua peculiare irripetibile identità, che la fa essere un classico tout court. La somiglianza con la prosa manzoniana deriva dall’uguale maniera di approcciare il mondo degli umili, con la stessa umana immedesimazione, che deriva dal comune afflato rosminiano. Non c’è però l’adesione a una comune poetica sul lato formale, essendo nel Milanese e nella Siciliana peculiare e inconfondibile la vena poetica, che trova l’innesco, nell’uno, nella condizione degli umili sotto la dominazione spagnola del Seicento e, nell’altra, nei poveri che filano e tessono nei bassi delle povere case di paese o nei roventi paesaggi teocritei della mietitura e della trebbiatura. Sempre con lo sguardo volto a cogliere i segni del Cielo nel culto di quei valori che danno pace all’anima e serenità al mondo degli affetti.
Quel che a noi qui interessa mettere in evidenza è la sensibilità della scrittrice nel cogliere il dramma di un tempo “in cui la civiltà invadente” tende a spazzare via “usi locali, tradizioni sante, semplicità di costumi patriarcali”. Quei valori che hanno dato senso al vivere e motivazione all’agire, pur nella problematicità del contingente. Angelina Lanza non si nasconde l’arretratezza del presente. Additando “questa buona gente” di Gratteri, dice infatti: «era indietro almeno d’un secolo, fino al tempo della guerra. Ma non s’è ancora aggiornata, come si dice ora». E riguardo alla condizione delle donne: «Il lavoro che compie durante l’anno una di queste donne, è una somma enorme di attività, d’intelligenza, di sacrifizio. E generalmente gli uomini le sono poco grati. E’ il lato men bello del carattere maschile, in questa popolazione rustica». Essa teme, però, che il progresso, pur necessario e inevitabile, venga ad intaccare quel collante della vita sociale che sta nella solidarietà, sotto lo sguardo vigile della Provvidenza.
E’ chiaro che la sua fede religiosa e la sua tendenza mistica la portano a vedere ogni realtà nella luce della trascendenza. Ma non si può dire che i suoi libri, e in particolare quello qui più volte citato, siano obsoleti e nulla abbiano da dire all’uomo di oggi. Perché in ogni suo scritto aleggia la poesia, quella vera, che parla sicuramente all’anima quando esorbita dalle categorie mentali diacronicamente attuali. La casa sulla montagna è inoltre un testo il quale, oltre a dare un quadro credibile ed esauriente della mentalità, delle usanze, del modo di intendere i rapporti interpersonali nel passato, per cui non può ignorarlo chi intende occuparsi di storia locale, è anche un classico della narrativa e un’opera di alta poesia. Un vero e proprio poema della natura nel senso classico.

GIUSEPPE TERREGINO