Quando si parla di Carmine Papa, si gira intorno a quella autodefinizione di “poeta zappatore” per concedergli il beneficio di annoverarlo tra i poeti veri malgrado le inevitabili pecche formali della sua opera. Poco si pensa, invece, alla sua poetica dell’impegno civile da cui deve animato il poeta. Eloquente esempio di tale impegno è la poesia A li viddani a lu 1871, che può essere considerata un vero e proprio manifesto dell’orgoglio contadino. Orgoglio che non è vanagloria, ma esaltazione di un animus – quello dello zappatore per l’appunto –  votato all’altruismo. Come lascia intuire l’immagine di una campagna ben coltivata, figurata ad inizio del componimento,  che nel suo fulgore canta la gloria di Dio e rivela la imprescindibile dimensione sociale del lavoratore. Il quale perciò va trattato con rispetto. Onde il monito agli “omini pussidenti” che trattano male “li viddani”, dando loro “cosi tinti e retuperi”: «nun cc’eni carità, nin cc’è morali!».

«Nun disprizzari no lu campagnolu / – ammonisce il poeta – ca nun avi pistoli e spati ‘n manu, / la terra è lu so scaru e lu so molu, / pri sustintari a nui lu corpu umanu». Il lavoro dei campi ha un ruolo fondamentale nella economia della creazione. Quella dell’agricoltura, base della dignità della persona che la pratica e risorsa imprescindibile per l’intera società, per Carmine Papa è un’arte di ispirazione divina, che trova i primi cultori nei personaggi biblici di Adamo e Noè. Il primo, «Adamu fu lu primu agriculturi / o pri dirila megghiu cuntatinu, / la terra cultivau cu li suduri»; l’altro, «lu bon vecchiu Nuè … chiantau li vigni … /iddu spirimintau lu primu vinu».

Nel contesto, di vivace e colorita connotazione georgica, con descrizioni di un certo pregio poetico, ritorna come un ritornello il motivo della nobiltà del lavoro agreste, configurato nel succedersi delle benedizioni per la zappa: «biniditti li zappi e li zappuna, / su lu sustegnu di lu nostru viviri!»; fino all’epiteto di “zappa santa”, veramente inusuale nella bocca di uno che al tramite di questa “santa” avrebbe potuto imputare i più che probabili acciacchi connessi alla sua devozione.

Ma questi acciacchi sarebbero per lui un accidente di poco conto rispetto alla sostanza della fondamentale importanza del lavoro agricolo per la vita dell’umanità. Al contrario di quella attività di morte che è la guerra di conquista, come quando Napoleone Buonaparte «vosi già fari n’assaltu luntanu, / vos’jri a Mosca nni dda gran citati». Dove, però, «ardutu e siccu lu truvau ddu chianu, / senza pani, farina né patati; / nudda zappa truvau, nuddu viddanu, / mureru multi di jelu e affamati». Quasi una rivincita della zappa, che fa sentenziare al poeta: «A chi giuva la forza e la putenza; / chi giuvanu li scettri e li curuni?. Che è anche una denuncia dell’imperialismo e della tracotanza bellica che sacrifica milioni di vite umane sull’altare dell’egoismo, non importa se individuale o di stato. E dice anche come Carmine non fosse un contadino chiuso nel suo guscio casereccio, ma avesse una apertura d’orizzonte che andava oltre i confini della propria città e fosse portato a riflettere anche sulle tematiche politiche di dimensione transnazionale. Ovviamente con tutti i limiti del suo status sociale e della parzialità delle fonti di informazione.

Carmine è pacifico non per paura o per banale quieto vivere, ma perché convinto che col lavoro nella pace solidale si realizzano la dignità della persona umana e il benessere della gente. La sua poesia è trasparenza di questa visione della vita. E in tale ottica  va soprattutto  analizzata e compresa. Perché sul lato meramente filologico il suo mondo espressivo subisce l’handicap  della inadeguatezza del dialetto di renderlo esteticamente elevato. In lingua le descrizioni georgiche avrebbero avuto altro tono e altro effetto.

Carmine è devoto della zappa per il significato morale e civile che ha nella sua mente il lavoro. Tanto che la sua sapienza contadina sa meglio trasfigurarsi in poesia proprio quando egli descrive la vita delle api e del loro instancabile sorvolare “cughiennu meli ‘ntra li sciuri”, per ritornare “cu l’ali ‘mpiccicusi” a depositare il loro carico di miele e di cera. Approcciandole amorevolmente, il poeta ne loda la virtù (sottintesa) della operosità: «beddi lapuzzi cari e virtuusi!»; virtù, questa, che nella sua mente si coniuga con la maestria costruttiva, onde l’ape  da lui è detta “maistra virtuusa”. Nel quale attributo c’è anche l’ammirazione, che sarebbe meglio chiamare stupore, per la geometrica architettura dell’alveare (“dintra cci sù palazzi frabbicati”) che tanto lascia stupiti gli etologi e finanche i matematici, i quali risultano veramente meravigliati per il senso della forma e del numero presenti in questo umile operaio del mondo animale inferiore.

In questo mondo egli meglio si immedesima perché la maestria dell’ape gli ricorda quella dell’agricoltore, il quale non è “un mastru di ripezzi, / havi scienza e cci su libra e carti”. Quella scienza che egli non rinunciò di acquisire, andando anche a “laurearsi”, come ci dice nell’elogio al Barone Mandralisca; che lo avrebbe in qualche modo aiutato a conseguire questo titolo di agricoltore esperto. La qual cosa ci suggerisce l’idea della sua apertura al progresso pure nella sua modesta professione. Estraneo al filone della poesia georgica, di quella didattica come di quella estetica, Carmine Papa è piuttosto un personaggio della poesia della natura, il quale loda e benedice lo strumento di quel lavoro che insieme al sostentamento gli dona dignità. Coi suoi versi egli anticipa gli articoli 1 e 4 della Costituzione repubblicana limitatamente al lavoro dei campi, perché «La terra ni duna l’esistenza / medianti la zappa e lu zappuni; e lu viddanu cu l’arti e pacenza / chianta patati e simina granuni».

GIUSEPPE TERREGINO